Trieste, la Risiera di San Sabba

Quante vite può avere un luogo? Questa è la storia di un opificio edificato in origine per la lavorazione e la trasformazione del riso e trasformato, suo malgrado, prima in una caserma militare e poi in un campo nazista di detenzione e di polizia. Queste mura ospitano oggi un museo che vuole conservare la memoria di quel che è stato, restituire dignità a chi qui incontrò paura e morte e tramandare ai posteri la sua storia perché quel che fu non sia più.
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Nel febbraio del 1898 la locale società di Pilatura del riso del Litorale acquistò i terreni del rione di San Sabba, nella periferia di Trieste, per edificarvi un insieme di edifici destinati alla lavorazione del riso. L’opificio rimase in attività fino ai primi anni ‘30 e dopo il 1940 fu convertito in una caserma militare. In seguito all’occupazione del territorio da parte delle forze tedesche, l’ex opificio fu utilizzato prima come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 per essere poi trasformato nel Polizeihaftlager della Risiera di San Sabba, un campo di detenzione e di polizia. Dopo la fine della seconda guerra mondiale e fino al 1965, la Risiera divenne un campo di raccolta per i profughi in fuga dai paesi al di là della cortina di ferro. Il 15 aprile 1965 l’allora Presidente della Repubblica italiana Giuseppe Saragat dichiarò la Risiera di San Sabba monumento nazionale per la sua rilevanza storica e politica, consegnandola ai posteri e alla Storia come luogo della memoria legato alle vicende dell’occupazione nazista d’Italia.
La Risiera fu uno dei quattro Polizeihaftlager italiani insieme a FossoliBorgo San DalmazzoBolzano, ma fu l’unico dotato di un forno crematorio. La sua complessa realtà emerge dall’inchiesta giudiziaria svolta all’epoca del processo celebrato nel 1976. Nella sentenza che ne seguì si afferma che il Lager della Risiera di San Sabba fu per le vittime della persecuzione razziale quasi esclusivamente un campo di transito, mentre rappresentò un carcere o il braccio della morte per le vittime della persecuzione politica o per chi si macchiò di crimini di guerra. I nazisti lo usarono inoltre come centro per la predisposizione di azioni militari e di rastrellamento. Chi era destinato alla deportazione veniva trasportato per mezzo di autocarri telonati alla Stazione centrale di Trieste da dove partivano i treni diretti in Polonia o in Germania.

Quante persone
trovarono la morte nel Polizeihaftlager della Risiera
Le ricerche storiche non permettono ad oggi di fornire un dato preciso. In sede di processo (1976) si ipotizzarono “non meno di 2.000 vittime”, ma alcuni storici stimano tra i 4.000 e i 5.000 morti. Le esecuzioni avvenivano solitamente di notte. Le SS e i militari ucraini al loro soldo erano gli addetti alle soppressioni che avvenivano per impiccagione, fucilazione, gassazione o tramite colpi di mazza. E’ certo che qui furono massacrati circa 25 ebrei poiché considerati incapaci di affrontare il viaggio di deportazione.

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Il processo²
Il processo per i crimini commessi tra le mura della Risiera si svolse tra il 16 febbraio e il 28 aprile 1976 presso la Corte d’Assise di Trieste dopo un lunghissimo e travagliato iter giudiziario iniziato 30 anni prima. 174 testimoni, 2 imputati per omicidio plurimo pluriaggravato continuato: August Dietrich Allers e Josef Oberhauser. I reati di omicidio contro partigiani ed esponenti politici della Resistenza furono esclusi dai capi di imputazione perché motivati dalle leggi di guerra. Il 29 aprile 1976 Josef Oberhauser fu condannato all’ergastolo, ma non scontò la pena perché l’estradizione non fu autorizzata. August Dietrich Allers morì prima che il processo cominciasse. Fu tutto inutile? Probabilmente no, perché il processo permise di fare luce su quel che avvenne in questo Polizeihaftlager.

La Risiera di San Sabba oggi³

Il Museo della Resistenza della Risiera di San Sabba nasce dal progetto dell’architetto triestino Romano Boico (1910 – 1975): “Eliminati gli edifici in rovina ho perimetrato il contesto con mura cementizie alte undici metri, articolate in modo da configurare un ingresso inquietante. Il cortile cintato si identifica, nell’intenzione, quale una basilica a cielo libero. L’edificio dei prigionieri è completamente svuotato e le strutture lignee scarnite di quel tanto che è parso necessario. Inalterate le diciassette celle e quella della morte. Nel cortile un terribile percorso in acciaio, leggermente incassato: l’impronta del forno, del canale del fumo e della base del camino“.

Qualche informazione utile
Orario di visita: tutti i giorni dalle 9-17. Ingresso gratuito.
Dove: Via Giovanni Palatucci, 5 – Trieste.
T. +39 040 826202
risierasansabba@comune.trieste.it
Come arrivare: Go Green! Autobus 8 e 10
Per maggiori informazioni: https://risierasansabba.it

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Fonte: La Risiera di San Sabba, Edizioni Civici musei di storia ed arte, Comune di Trieste, 2016, ISBN 978-88-87377-62-0
Foto di Emiliano Allocco (clicca qui per vedere altre foto)

¹ La Risiera di San Sabba, Edizioni Civici musei di storia ed arte, Comune di Trieste, 2016, pag. 22
² La Risiera di San Sabba, Edizioni Civici musei di storia ed arte, Comune di Trieste, 2016, pag. 40
³ La Risiera di San Sabba, Edizioni Civici musei di storia ed arte, Comune di Trieste, 2016, pag. 41
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Con i lupi alle spalle

«Per quanti lupi possiamo avere alle spalle, dinanzi a noi c’è sempre un eroe disposto a salvarci. Questa è la storia di una bambina e degli eroi inconsapevoli che la salvarono dai lupi. Una storia  che vuole ricordarci che sono gli umili che salvano il mondo dalla sua malvagità».
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Zagabria, dicembre 1941. Bianca Hessel Schlesinger ha solo 8 anni quando, insieme alla famiglia, è costretta ad abbandonare Zagabria, occupata dai tedeschi. Al tempo circolavano voci su un campo di concentramento nello stato indipendente di Croazia, Jasenovac. Nulla più si sapeva di chi veniva internato qui. Iniziavano a circolare voci a cui la gente non voleva credere. Il padre di Bianca era il capo della comunità ebraica della Croazia. Una notte venne a sapere da un amico che il giorno dopo ci sarebbe stato un rastrellamento in città e che i nomi della sua famiglia erano sulla lista. Aveva dovuto decidere al momento. In fretta e furia si riempiono zaini con lo stretto necessario. I gioielli di famiglia sono nascosti in un fazzoletto che viene legato sotto i vestiti dei bambini. La famiglia fuggì prima a Lubiana, poi a Trieste e infine a Cuneo. «Siamo stati accettati formalmente come profughi di guerra. Ci mandano a Cuneo. Ci pagano perfino il viaggio».¹ E da Cuneo a Bra.
«Il vostro stato è di profughi civili, ad abitazione coatta. ⌈…⌋ Riceverete un sussidio di cinquanta lire per l’alloggio e 8 lire a persona per l’alimentazione. Per gli adulti. I bambini sotto i diciotto anni avranno 5 lire a persona».² Ai profughi civili era fatto divieto di lettura dei giornali, di ascoltare la radio, partecipare a raduni, frequentare scuole pubbliche, usare ospedali pubblici. La corrispondenza era ridotta a non più di due lettere di massimo dieci righe. Gli indirizzi con cui desideravano corrispondere dovevano essere comunicati in anticipo alle autorità per approvazione e le lettere non potevano essere imbucate, ma dovevano essere consegnate alla questura, aperte, lette per la censura. La vita a Bra procede tra alti e bassi.
Poi all’improvviso le cose precipitano. 8 settembre 1943, l’armistizio. I tedeschi invadono l’Italia. Nel nord del paese si costituisce la Repubblica Sociale Italiana. Da quel momento gli ebrei sono considerati stranieri e appartengono a nazionalità nemica (art. 7 del manifesto di Verona). Quando anche a Bra vennero affissi su tutti i muri manifesti che invitavano la popolazione a denunciare la presenza di ebrei in città, suor Lorenzina (al secolo Maria Anna Oberto) chiese al fratello Luigi di ospitare gli Hessel. Oltre a Bianca, la famiglia era formata da papà Leone e mamma Mira, dall’aziana nonna Johanna, dai tre fratelli Lijerka, Nada e Simon, dalla zia Zora Berger con il figlio Ari. Nove clandestini, nove bocche da sfamare in tempo di guerra. Luigi e Maria Oberto vivevano nella piccola frazione di Rivalta di La Morra, in una borgata che contava una decina di case appena. Erano una famiglia contadina numerosa, anche loro di nove persone. Luigi Oberto, senza aver mai conosciuto gli Hessel, prepara il carro e percorre la strada di terra battuta che porta a Bra. Carica casse, cassettoni e gli Hessel e fa ritorno a Rivalta. Entrati in casa, Maria si fa avanti con una brocca d’acqua fresca. Leone rompe il silenzio: «Non so proprio come ringraziarla. Guardi,» aggiunge, estraendo il proprio portafoglio, «non abbiamo molti soldi, ma abbiamo dell’oro…». Luigi respinge il portafoglio con un gesto della mano. Lentamente estrae dalla tasca posteriore il proprio e lo posa sul tavolo. «Tutto quello che è mio, è vostro. Prenda quanto ha bisogno».³ «Finché i miei figli avranno pane, anche i tuoi ne avranno». Gli Oberto lasciarono la loro casa agli Hessel e si sistemarono davanti, nella loro vecchia abitazione, più piccola: «Tanto ci siamo abituati». Per quasi due anni le due famiglie vissero insieme, con la complicità silenziosa dell’intera borgata. Le lotte tra partigiani e repubblichini e le rappresaglie dei tedeschi si fecero più feroci con il passare del tempo. Gli Hessel riuscirono sempre a nascondersi durante i diversi rallestrallamenti, avvisati per tempo dai contadini che erano al lavoro nei campi e che per primi vedevano avvicinarsi il pericolo. Gli Oberto riuscirono ad ottenere identità e documenti falsi per gli Hessel,  che salvarono loro la vita durante un’ispezione a sorpresa per verificare l’identità del nucleo di profughi.
Nel 1998 i coniugi Oberto sono stati riconosciuti dallo Stato di Israele come Giusti fra le Nazioni. Il 26 gennaio 2018, nel corso di una cerimonia pubblica, la scuola primaria e media di La Morra è stata intitolata a Maria e Luigi Oberto, Gusti fra le Nazioni.
Bianca Hessel Schlesinger è l’unica testimone ancora vivente di questa storia ed è l’autrice di Con i lupi alle spalle, un volume edito da Ediarco Srl (I libri di Olokaustos; 2 – ISBN 88-7876-024-2) dove vengono narrati questi avvenimenti.
La storia di questa famiglia poverissima che ne salva un’altra impoverita dagli eventi, disperata, umiliata, perduta ha una forza dirompente. Gli Oberto salvano gli Hessel che pure non hanno mai conosciuto prima e compiono un atto di eroismo inconsapevole, fortissimo. Sono mossi da profondi sentimenti di giustizia e umanità. Sono salvatori di vite, perché non potrebbero essere niente di diverso. Non concepiscono neppure la possibilità di assenza di solidarietà. Questa storia di uomini, celata tra le pieghe della grande Storia, ha per me un valore doppio perché si snoda tra due città, Bra e La Morra, dove ho vissuto.
Se vi va di sentire raccontare questi fatti direttamente da Bianca, potete cliccare sul link sotto e visionare il documentario «Bianca e Lucia» di Dario Dalla Mura e Elena Peloso. Nel 2010, l’anno in cui è stato prodotto, Bianca e Lucia ha partecipato alla Mostra del cinema di Venezia nello spazio Regione Veneto, ha vinto il premio speciale assegnato da Emergency al festival italiano indipendente di Lecce e ha ricevuto dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano la medaglia per l’impegno civile.
Bianca e Lucia, due ragazze ebree scampate all’inferno


¹ Con i lupi alle spalle, Bianca Schlesinger, pag. 37
² Con i lupi alle spalle, Bianca Schlesinger, pag. 50
³ 
Con i lupi alle spalle, Bianca Schlesinger, pag. 97