Scoprendo il Piemonte, l’Abbazia di Santa Maria di Staffarda di Revello

A 10 chilometri da Saluzzo e a circa 60 chilometri da Torino, in una zona pianeggiante immersa nella profonda campagna piemontese sorge uno dei grandi monumenti medioevali del Piemonte, l’Abbazia di Santa Maria di Staffarda.
Fu fondata tra il 1122 e il 1138 sul territorio dell’antico Marchesato di Saluzzo, in un luogo paludoso, boschivo, isolato, reso fertile dai monaci cistercensi con estese e complesse opere di bonifica. A seguito di numerose donazioni di terreni all’Abbazia, divenne impossibile per i frati coltivare direttamente tutti i possedimenti. I monaci diedero quindi in affitto molti appezzamenti di terra e, con i denari così accumulati, iniziarono a concedere prestiti come un moderno istituto di credito. L’Abbazia benedettina cistercense raggiunse in pochi decenni una notevole importanza economica quale luogo di raccolta, trasformazione e scambio dei prodotti delle campagne circostanti. L’importanza economica aveva portato all’Abbazia privilegi civili ed ecclesiastici che ne fecero il riferimento della vita politica e sociale del territorio.
Nel 1606, i monaci furono allontanati dall’abate Scaglia di Verrua che chiamò ad occuparsi dell’Abbazia sedici monaci della Congregazione di Foglienzo, di più stretta osservanza delle regole monastiche cistercensi. La decadenza dell’Abbazia divenne definitiva in seguito alla battaglia del 18 agosto 1690 tra le truppe vincenti di re Luigi XIV di Francia e i piemontesi di re Vittorio Amedeo II. I francesi, guidati dal generale Catinat, invasero l’Abbazia distruggendo l’archivio, la biblioteca, parte del chiostro e del refettorio. I francesi furono cacciati solamente dopo il 1706. Tra il 1715 e il 1734, con l’aiuto finanziario di Vittorio Amedeo II, vennero effettuati lavori di restauro che in parte alterarono le originali forme gotiche dell’architettura del luogo.
Con Bolla Pontificia di Papa Benedetto XIV, nel 1750, l’Abbazia ed i suoi patrimoni divennero proprietà dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro ed eretti  in Commenda.

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Cosa vedere
Del complesso abbaziale in stile romanico-gotico sono di notevole interesse la Chiesa con il Polittico di Pascale Oddone e il gruppo ligneo cinquecentesco della Crocifissione, il meraviglioso Chiostro con il suo giardino, il Refettorio con tracce di un dipinto raffigurante L’ultima cena, la Sala Capitolare e la Foresteria. Gli altri edifici costituiscono il cosiddetto concentrico di Staffarda, vale a dire il borgo che conserva ancora oggi le strutture architettoniche funzionali all’attività agricola come il mercato coperto sulla piazza antistante l’Abbazia e le cascine.
L’architettura degli edifici fu progettata in funzione della divisione dei monaci in chierici (capitolari) e laici (conversi). I primi dovevano osservare i voti, vivere in contemplazione e obbedire alla regola del silenzio, mentre i lanci svolgevano i lavori agricoli. Ai conversi era fatto divieto di entrare nella casa capitolare, nel chiostro e nelle altre aree riservate ai capitolari.

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Curiosità: la balena, i gatti e i pipistrelli dell’Abbazia di Staffarda
L’Abbazia ama gli animali! È infatti presidiata da una colonia di gatti che qui si aggirano indisturbati. Questo insolito staff di felini custodi vi accompagnerà nella vostra esplorazione del Chiostro e vi osserverà a debita distanza di sicurezza, come  solo i migliori gatti da guardia sanno fare.
Ma i gatti non sono i soli animali ad aver preso residenza tra le mura del complesso monastico. Ogni anno, dai primi di aprile, si radunano dentro il locali dell’Abbazia 1.200 femmine di Vespertilio maggiore e Vespertilio di Blyth, due tra le specie di Chirotteri (pipistrelli) di maggiori dimensioni della fauna europea. Intorno alla metà di giugno ogni femmina gravida partorisce un piccolo. E per qualche mese l’Abbazia diventa una vera e propria nursery. Durante la notte, le madri escono a caccia di insetti e fanno ritorno all’alba in tempo per allattare i piccoli e riposare. Durante l’estate, i cuccioli raggiungono la taglia adulta e imparano a cacciare. Verso la fine di settembre, la colonia si disperde per tornare ancora a primavera.
Passeggiando nelle gallerie porticate che costeggiano il chiostro, noterete un enorme osso ricurvo appeso a una parete verso la Chiesa. Quest’osso misura circa un metro e mezzo di lunghezza e la leggenda narra che appartenesse a una enorme balena mandata da Dio per sfamare i monaci cistercensi durante una grave carestia. Con buone probabilità si tratta di una vertebra di un gigantesco animale preistorico, ma tanto vale!

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Dove: Piazza Roma 2, 12036 Staffarda (CN) – 0175/273215
Quando: dal martedì alla domenica dalle 09.00 alle 12.30 (ultimo ingresso ore 12.00) e dalle 13.30 alle 18.00 (ultimo ingresso ore 17.30). Chiuso il lunedì. 
Sul web: http://www.ordinemauriziano.it/abbazia-di-santa-maria-staffarda

Queste informazioni sono valide nel momento in cui si scrive (giugno 2020). Si rimanda al sito ufficiale per dettagli e orari aggiornati.
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Alla scoperta del Piemonte, la Riserva Naturale dei Ciciu del Villar

In Val Maira in località Costa Pragamonti, nei pressi dell’abitato del comune di Villar San Costanzo, tra Busca Dronero, si trova la Riserva Naturale dei Ciciu del Villar, un’area protetta del Piemonte istituita nel 1989 a tutela di un fenomeno di erosione piuttosto particolare, le colonne di erosione, anche note come piramidi di terra o, in piemontese, cicio ‘d pera. La riserva sorge ad una quota compresa tra i 670 e i 1.350 metri di altitudine e si estende su una superficie di 64 ha ai piedi del massiccio del monte San Bernardo. Le colonne di erosione sono sculture morfologiche naturali dalla tipica forma a fungo, dove il gambo è formato da terra e pietrisco ed è in genere di colore rossastro per la presenza di ossidi e idrossidi di ferro. I cappelli sono costituiti da massi erratici, a volte di notevoli dimensioni, che si sono distaccati dalle pareti rocciose. I crolli sono stati provocati, molto probabilmente, da eventi sismici che in questa zona si ripetono con una certa frequenza. La formazione dei ciciu è stata determinata da un processo di erosione fluviale, per effetto del quale le porzioni di terreno che erano protette dai massi di gneiss sono state preservate dalla demolizione operata dalle acque correnti e dalle piogge e sono emerse progressivamente come colonne incappucciate, mentre il terreno circostante veniva lavato via dagli affluenti del Rio Fanssimagnia. Questa azione erosiva è ancora in atto. In dialetto piemontese ciciu significa pupazzo o fantoccio. 

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Quanti sono i ciciu del Villar?
Nel 2000 è stato effettuato un vero e proprio censimento dei ciciu del Villar a cura di Alberto Costamagna, ricercatore del dipartimento di Geografia Fisica dell’Università di Torino. In questa occasione sono stati contati 479 ciciu concentrati per lo più in un’area di circa 0.25 km², a volte isolati, a volte raggruppati. Le dimensioni dei funghi di pietra possono variare notevolmente. I pinnacoli possono avere un’altezza che va dai 50 centimetri ai 10 metri, anche se generalmente non superano i 2 metri, mentre il loro diametro oscilla tra 1 e 7 metri. I cappelli possono raggiungere anche 8 metri di larghezza.

Storia e leggenda

La storia ci dice che i ciciu si sono formati presumibilmente al termine dell’ultima era glaciale, in seguito allo scioglimento dei ghiacciai che portò il torrente Faussimagna, affluente di sinistra del torrente Maira, ad esondare, erodendo le pendici del monte San Bernardo e trasportando a valle un’enorme massa di detriti. In seguito, molto probabilmente per effetto di frane e terremoti, i massi staccatisi dal monte San Bernardo rotolarono a valle e ricoprirono il terreno alluvionale. A poco a poco il Faussimagna ricoprì anche le pietre scure, fino a quando, per effetto dei violenti movimenti tettonici avvenuti durante il Pleistocene superiore, il terreno subì un improvviso innalzamento e il fiume si ritrovò a scorrere più in basso. Iniziò quindi ad erodere il terreno, riportando alla luce i sassi che aveva ricoperto, arrotondandoli e levigandoli a poco a poco. Allo stesso modo il terreno subì l’azione erosiva degli agenti atmosferici: ma mentre il terreno poco coerente del versante della montagna venne portato via facilmente, i sassi fornirono una sorta di protezione alle colonne di terreno sottostanti, riparandoli come se fossero ombrelli. Il risultato è quello che vediamo ancora adesso, ossia massi erratici sorretti da colonne di terreno: qualcuno li chiama funghi, altri più poeticamente li hanno soprannominati camini delle fate.
Molte leggende popolari cantano l’origine dei ciciu che sarebbero sorti per incantesimo o per miracolo. Secondo alcuni, i ciciu non sarebbero altro che masche (le streghe della tradizione piemontese) trasformate in pietra dopo che un uragano avrebbe interrotto un loro sabba. Ma la leggenda più celebre sull’origine di ciciu è legata a San Costanzo, un legionario romano di Tebea che sarebbe stato martirizzato intorno all’anno 303-305 d.C., durante la persecuzione dei cristiani attuata dall’imperatore Diocleziano, proprio sulle pendici del monte San Bernardo. San Costanzo, oggi santo patrono di Villar, fu tra i primi martiri evangelizzatori della dottrina cristiana nelle vallate cuneesi. Mentre fuggiva nei boschi, braccato dai soldati romani, giunto alla Costa Pragamonti si voltò verso i suoi inseguitori e urlò: “O empi incorreggibili, o tristi dal cuore di pietra! In nome del Dio vero vi maledico. Siate pietre anche voi!” E così cento legionari all’istante furono trasformati in ciciu di pietra. Altri legionari tuttavia raggiunsero San Costanzo e lo martirizzarono sulla collina che sovrasta Villar, dove oggi sorge il Santuario di San Costanzo al Monte. 

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Flora e Fauna della Riserva Naturale
Il territorio della Riserva è stato in passato coltivato dall’uomo e poi abbandonato. Oggi la natura ha ripreso il sopravvento ed è ricca di querce, castagni, pioppi tremoli, betulle e aceri montani. Nell’area si trovano piccoli boschi di conifere, frutto di rimboschimenti artificiali, piante da frutto e altre ornamentali. La presenza di boschi fitti su tutto il territorio e di rocce emergenti al limitare della vegetazione rendono la Riserva un luogo adatto alla vita di numerose specie di uccelli come il picchio muratore, il picchio rosso minore, il picchio verde, diverse famiglie di cince, il codibugnolo, il fiorrancino e il regolo. Tra i rapaci spiccano la poiana e il falco pellegrino, nidificante da anni nelle aree limitrofe. Fra i rapaci notturni è documentata la presenza di civette, allocchi e barbagianni. I mammiferi sono rappresentati da volpi, cinghiali, caprioli, donnole, faine, tassi e scoiattoli. Si possono osservare alcune specie di serpenti tra cui il biacco, la natrice dal collare, la vipera comune e la coronella. infine la salamandra comune e il tritone vivono nelle pozze e nei ruscelli.

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Curiosità: il ponte tibetano sospeso sul torrente Maira che unisce Monastero di Dronero e Morra Villar San Costanzo
Da giugno 2019 un ponte tibetano pedonale e ciclabile lungo 70 metri, sospeso a 20 metri di altezza sul torrente Maira, unisce la frazione Monastero di Dronero direttamente a Morra Villar San Costanzo. La struttura è stata progettata dall’ingegnere Livio Galfré su incarico dell’Unione Montana e offre il pretesto per un’escursione dalla vicina Riserva dei Ciciu del Villar.

Dove: Via Ciciu 43 – 12020 Villar San Costanzo (CN)
Quando: l’area è aperta e visitabile tutto l’anno ed è dotata di servizi igienici, di aree attrezzate per il pic-nic e di giochi per i più piccoli. Per informazioni aggiornate sull’apertura del Centro Visite e sulle tariffe d’accesso è possibile consultare la pagina dell’Associazione Provillar che gestisce la Riserva o telefonare dalla primavera all’autunno, tutti i giorni dalle ore 9.00 alle 19.00, al numero 327 117 6661.
Sul web: http://www.ciciudelvillar.areeprotettealpimarittime.it/

Varanasi, sospesa tra terra e cielo

Varanasi è adagiata sulla sponda occidentale del fiume Gange e qui si estende per chilometri. Dalla riva del Gange i viaggiatori devono arrampicarsi su ripide scalinate, i ghat, per raggiungere un labirinto di vicoli, angusti e bui, che formano il cuore antico della città. Il lato opposto del fiume è una lunga spiaggia di sabbia bianca, spoglia, non edificata. Il sole del mattino svela un lungofiume di palazzi storici decadenti e costruzioni fatiscenti, illumina alberi le cui radici spezzano il terreno, scalinate irregolari e un’umanità colorata, già operosa. Le viscere della città sembrano inghiottire i viandanti: si dipanano in un dedalo di vie minuscole, gali, dal selciato irregolare, troppo strette per permettere il passaggio di automobili, dove le immondizie sono abbandonate a terra, le vacche bivaccano ad intralciare la via e poi il buio, i negozi, i vivi che camminano veloci, i morti che vagano, gli dei che abitano nelle nicchie votive. Se vi sentite persi, alzate gli occhi e controllate che sopra di voi, oltre i grovigli di fili elettrici su cui saltano le scimmie, ci sia ancora il cielo. Varanasi è sporca, ladra, bugiarda, maleodorante, difficile, chiassosa, eppure non può lasciare indifferenti. Se non suscita in voi un immediato e forse giustifato sentimento di repulsione, è molto probabile che vi affascinerà e che diventi uno dei vostri luoghi del cuore.
Varanasi è tra i centri abitati più antichi del mondo. I primi insediamenti risalgano al 1200 a.C. Nel tempo ha avuto molti nomi: è stata Kashi la luminosaAnandavana la foresta di beatitudiniAvimukta la mai abbandonataBenares o Banares al tempo del colonialismo inglese e oggi Varanasi, che forse indica la sua collocazione geografica sul fiume Gange delimitato dai suoi due affluenti, il fiume Varana a nord e a sud il rigagnolo Assi. Nell’immaginario collettivo è il luogo dell’altrove, dove risiede Shiva e dove vita e morte coabitano. E’ uno dei siti più sacri dell’India per gli Hindu, dimora di asceti che percorrono vie estreme di rinuncia e meta costante di pellegrini che qui compiono rituali antichi e fanno generose donazioni alle istituzioni religiose nella speranza di ottenere meriti spirituali per una rinascita migliore nella prossima vita. Gli Hindu scendono i ghat per andare a lavare i peccati terreni nelle acque di Ganga o per cremare i loro cari.
Abitata dai bhut, spiriti dannati che vagano alla ricerca di un po’ di pace e che interagiscono spesso in modo molesto con i vivi, Varanasi è il luogo dove mondi diversi si incontrano: vivi, morti, antenati, guardiani, dei, spiriti camminano tra le sue strade. Dopo la cremazione gli spiriti dei morti attraversano una fase intermedia prima di entrare nel mondo degli antenati: in questo periodo vagano e possono rimanere attaccati ai vivi, se i riti funebri non sono stati eseguiti secondo tradizione. Chi invece ha sperimentato una morte prematura o violenta rimane impigliato in una dimensione di mezzo e non riesce a trovare pace. Questi spiriti spesso sfogano rabbia, insoddisfazione, ora gelosia contro i vivi che devono propiziarseli attraverso offerte per tentare di pacificarli. E così donne morte prematuramente o immolate sulla pira funeraria del marito, morti ammazzati, eroi locali diventano, se pacificati, custodi dell’area dove hanno vissuto, vegliando infine sui vivi. Li troverete in piccoli santuari ai crocicchi delle strade. Fateci caso.
La vita spirituale di Varanasi ruota intorno ai suoi 80 ghat, la maggior parte dei quali è usata per scendere sulla riva del Gange e bagnarsi, ma ci sono anche diversi ghat funerari dove i cadaveri vengono cremati in pubblico. Il principale è quello di Manikarnika. Il momento migliore per visitare i ghat è l’alba: si potrà osservare una bella mescolanza di genti che va al Gange per il bagno rituale, per fare yoga insieme, per lavare i vestiti, per acquistare fiori o fare il bagno ai bufali, per farsi fare un massaggio o giocare a cricket o ancora per fare l’elemosina ai mendicanti per far progredire il proprio karma. Un’escursione in barca lungo il fiume è il modo migliore per approcciarsi alla città.
Il Manikarnika ghat è il luogo più propizio dove ogni buon Hindu vorrebbe essere cremato. I cadaveri vengono presi in custodia da un gruppo di domintoccabili, e portati in processione su una barella di bambù ricoperta da un sudario tra le vie della città, fino alle sacre acque di Ganga. I corpi vengono immersi nelle acque del fiume e poi portati alla cima del ghat, impilati in cataste di legna da ardere e cremati. Ogni tipo di legno ha un costo diverso, quello più pregiato è il sandalo. Saper utilizzare la giusta quantità di legna per cremare i corpi è considerata una vera e propria arte. Si può assistere alla cremazione, ma è vietato scattare fotografie. Verrete probabilmente avvicinati da un sacerdote che si offrirà di condurvi in un posto migliore da cui assistere alle cremazione. Non seguitelo, se non siete disposti a lasciare una mancia. L’Assi Ghat, a sud dei ghat principali, è un buon posto dove osservare le puja (preghiere o offerte) al sole che sorge al mattino, mentre il Dasaswamedh Gath è molto suggestivo al tramonto poiché qui ha luogo la cerimonia del Ganga Aarti, l’adorazione del fiume. Non mancate di visitare il Vishwanath temple, il tempio d’oro, il più popolare tra i templi cittadini dedicati a Shiva con i suoi 800 chili d’oro a ricoprire la torre e la cupola.
La morte è un affare reale qui, quasi la si può sperimentare da vivi. Varanasi è la promessa della liberazione dal ciclo di morte, reincarnazione e rinascita e attira fedeli da ogni angolo del paese. Se qui esalerai il tuo ultimo respiro o se qui verrai anche solo cremato, Shiva il traghettatore verrà a sussurrare al tuo orecchio la formula segreta per la liberazione. E così un’umanità varia, malata, acciaccata viene qui a morire, nella speranza di non rinascere più in questo mondo. Il fuoco arde sempre e le ceneri dei morti vengono disperse nell’aria e tra le acque di Ganga, senza sosta. Fermatevi a bere un chay bollente, il dolcissimo tè nero con latte, profumato da zenzero, cannella, pepe nero e cardamomo. Lasciate che questa città vi parli. Varanasi non è la stessa per me e per voi e probabilmente non vi dirà le stesse cose in fasi diverse della vostra vita. Come tutti i luoghi che hanno qualcosa da dire, non risponde a nessuna domanda, ma sa sollevare nuovi interrogativi. Me ne sono andata delusa, cercavo una risposta che non ho trovato. Un anno dopo so che la risposta è una domanda nuova.

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Fonte: Varanasi. Le città letterarie, Vera Lazzaretti, Edizioni Unicopli, 2016.
Foto: Emiliano Allocco (Vedi altre foto di Emiliano)

Con i lupi alle spalle

«Per quanti lupi possiamo avere alle spalle, dinanzi a noi c’è sempre un eroe disposto a salvarci. Questa è la storia di una bambina e degli eroi inconsapevoli che la salvarono dai lupi. Una storia  che vuole ricordarci che sono gli umili che salvano il mondo dalla sua malvagità».
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Zagabria, dicembre 1941. Bianca Hessel Schlesinger ha solo 8 anni quando, insieme alla famiglia, è costretta ad abbandonare Zagabria, occupata dai tedeschi. Al tempo circolavano voci su un campo di concentramento nello stato indipendente di Croazia, Jasenovac. Nulla più si sapeva di chi veniva internato qui. Iniziavano a circolare voci a cui la gente non voleva credere. Il padre di Bianca era il capo della comunità ebraica della Croazia. Una notte venne a sapere da un amico che il giorno dopo ci sarebbe stato un rastrellamento in città e che i nomi della sua famiglia erano sulla lista. Aveva dovuto decidere al momento. In fretta e furia si riempiono zaini con lo stretto necessario. I gioielli di famiglia sono nascosti in un fazzoletto che viene legato sotto i vestiti dei bambini. La famiglia fuggì prima a Lubiana, poi a Trieste e infine a Cuneo. «Siamo stati accettati formalmente come profughi di guerra. Ci mandano a Cuneo. Ci pagano perfino il viaggio».¹ E da Cuneo a Bra.
«Il vostro stato è di profughi civili, ad abitazione coatta. ⌈…⌋ Riceverete un sussidio di cinquanta lire per l’alloggio e 8 lire a persona per l’alimentazione. Per gli adulti. I bambini sotto i diciotto anni avranno 5 lire a persona».² Ai profughi civili era fatto divieto di lettura dei giornali, di ascoltare la radio, partecipare a raduni, frequentare scuole pubbliche, usare ospedali pubblici. La corrispondenza era ridotta a non più di due lettere di massimo dieci righe. Gli indirizzi con cui desideravano corrispondere dovevano essere comunicati in anticipo alle autorità per approvazione e le lettere non potevano essere imbucate, ma dovevano essere consegnate alla questura, aperte, lette per la censura. La vita a Bra procede tra alti e bassi.
Poi all’improvviso le cose precipitano. 8 settembre 1943, l’armistizio. I tedeschi invadono l’Italia. Nel nord del paese si costituisce la Repubblica Sociale Italiana. Da quel momento gli ebrei sono considerati stranieri e appartengono a nazionalità nemica (art. 7 del manifesto di Verona). Quando anche a Bra vennero affissi su tutti i muri manifesti che invitavano la popolazione a denunciare la presenza di ebrei in città, suor Lorenzina (al secolo Maria Anna Oberto) chiese al fratello Luigi di ospitare gli Hessel. Oltre a Bianca, la famiglia era formata da papà Leone e mamma Mira, dall’aziana nonna Johanna, dai tre fratelli Lijerka, Nada e Simon, dalla zia Zora Berger con il figlio Ari. Nove clandestini, nove bocche da sfamare in tempo di guerra. Luigi e Maria Oberto vivevano nella piccola frazione di Rivalta di La Morra, in una borgata che contava una decina di case appena. Erano una famiglia contadina numerosa, anche loro di nove persone. Luigi Oberto, senza aver mai conosciuto gli Hessel, prepara il carro e percorre la strada di terra battuta che porta a Bra. Carica casse, cassettoni e gli Hessel e fa ritorno a Rivalta. Entrati in casa, Maria si fa avanti con una brocca d’acqua fresca. Leone rompe il silenzio: «Non so proprio come ringraziarla. Guardi,» aggiunge, estraendo il proprio portafoglio, «non abbiamo molti soldi, ma abbiamo dell’oro…». Luigi respinge il portafoglio con un gesto della mano. Lentamente estrae dalla tasca posteriore il proprio e lo posa sul tavolo. «Tutto quello che è mio, è vostro. Prenda quanto ha bisogno».³ «Finché i miei figli avranno pane, anche i tuoi ne avranno». Gli Oberto lasciarono la loro casa agli Hessel e si sistemarono davanti, nella loro vecchia abitazione, più piccola: «Tanto ci siamo abituati». Per quasi due anni le due famiglie vissero insieme, con la complicità silenziosa dell’intera borgata. Le lotte tra partigiani e repubblichini e le rappresaglie dei tedeschi si fecero più feroci con il passare del tempo. Gli Hessel riuscirono sempre a nascondersi durante i diversi rallestrallamenti, avvisati per tempo dai contadini che erano al lavoro nei campi e che per primi vedevano avvicinarsi il pericolo. Gli Oberto riuscirono ad ottenere identità e documenti falsi per gli Hessel,  che salvarono loro la vita durante un’ispezione a sorpresa per verificare l’identità del nucleo di profughi.
Nel 1998 i coniugi Oberto sono stati riconosciuti dallo Stato di Israele come Giusti fra le Nazioni. Il 26 gennaio 2018, nel corso di una cerimonia pubblica, la scuola primaria e media di La Morra è stata intitolata a Maria e Luigi Oberto, Gusti fra le Nazioni.
Bianca Hessel Schlesinger è l’unica testimone ancora vivente di questa storia ed è l’autrice di Con i lupi alle spalle, un volume edito da Ediarco Srl (I libri di Olokaustos; 2 – ISBN 88-7876-024-2) dove vengono narrati questi avvenimenti.
La storia di questa famiglia poverissima che ne salva un’altra impoverita dagli eventi, disperata, umiliata, perduta ha una forza dirompente. Gli Oberto salvano gli Hessel che pure non hanno mai conosciuto prima e compiono un atto di eroismo inconsapevole, fortissimo. Sono mossi da profondi sentimenti di giustizia e umanità. Sono salvatori di vite, perché non potrebbero essere niente di diverso. Non concepiscono neppure la possibilità di assenza di solidarietà. Questa storia di uomini, celata tra le pieghe della grande Storia, ha per me un valore doppio perché si snoda tra due città, Bra e La Morra, dove ho vissuto.
Se vi va di sentire raccontare questi fatti direttamente da Bianca, potete cliccare sul link sotto e visionare il documentario «Bianca e Lucia» di Dario Dalla Mura e Elena Peloso. Nel 2010, l’anno in cui è stato prodotto, Bianca e Lucia ha partecipato alla Mostra del cinema di Venezia nello spazio Regione Veneto, ha vinto il premio speciale assegnato da Emergency al festival italiano indipendente di Lecce e ha ricevuto dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano la medaglia per l’impegno civile.
Bianca e Lucia, due ragazze ebree scampate all’inferno


¹ Con i lupi alle spalle, Bianca Schlesinger, pag. 37
² Con i lupi alle spalle, Bianca Schlesinger, pag. 50
³ 
Con i lupi alle spalle, Bianca Schlesinger, pag. 97

A giro per Galle: alla scoperta del Fort e della sua eredità coloniale

La città di Galle e in particolare il suo Fort sono una meta irrinunciabile per chi viaggia nel sud dello Sri Lanka. Proclamata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 1988, è un’elegante città portuale sulla punta sud-occidentale dell’isola a circa 120 chilometri da Colombo, crocevia di genti e merci, testimonianza straordinaria dell’epoca coloniale che ha vissuto lo Sri Lanka. Il cuore della città è il Fort, una cittadella fortificata eretta dagli olandesi nel XVII secolo e circondata dal mare su tre lati. Passeggiando tra le sue vie, è possibile ammirare oltre 400 edifici storici tra case coloniali olandesi con il caratteristico colonnato antistante l’abitazione, chiese, moschee, templi, antichi edifici amministrativi, vecchi magazzini delle spezie e alberghi squisitamente restaurati. Vale la pena andare a giro per le strette stradine cittadine senza una meta precisa alla scoperta dei numerosi e raffinati caffè e delle tante botteghe che vendono merci di pregio di ogni genere. Sarà facile scovare qualcosa di insolito e originale da acquistare.
Secondo alcuni storici, Galle potrebbe essere stata Tarshish, la città dalla quale re Salomone ricevette in dono avorio, pavoni e preziosi gioielli. Una flotta portoghese, diretta alle Maldive, approdò qui nel 1505 ed espugnò la città. Si narra che i portoghesi l’abbiano chiamata così dopo aver sentito cantare un gallo. Più realisticamente il toponimo potrebbe derivare da “gala” che in singalese significa roccia. Nel 1640 i portoghesi dovettero cedere Galle agli olandesi, ai quali si deve la costruzione dell’imponente forte con i suoi tre bastioni a cui vennero dati i nomi di sole, luna, stella. Nel XVII secolo divenne il porto principale dello Sri Lanka e per quasi due secoli rimase un importante snodo commerciale per le navi che facevano la spola tra Europa e Asia. Quando la città passò in mano agli inglesi nel 1796, Colombo assunse un’importanza crescente come porto commerciale e Galle fu declassata a un ruolo di secondo piano. Più recentemente, la città ha riportato ingenti danni materiali e gravi perdite umane a causa dello tsunami del 26 dicembre 2004, provocato da un violento maremoto con epicentro al largo dell’Indonesia.
Il Fort si può girare tranquillamente a piedi o si può affittare una bicicletta se la calura non dà tregua.
Cosa fare a Fort:

  • Al calar del sole, quando il caldo finalmente scema, si può ammirare il tramonto passeggiando sui bastioni del forte. Si gode di un’incantevole vista sull’oceano da Flag Rock, l’antico bastione portoghese. È possibile compiere il giro di quasi tutto il perimetro della cittadella in circa un’ora partendo dalla torre dell’orologio. Poco prima del bastione “stella”, al di fuori delle mura, noterete una modesta tomba bianca dove riposano le spoglie mortali del santo musulmano Dathini Ziryam. Non mancate di ammirare nel tratto settentrionale delle mura la torre dell’orologio e il Main Gate, aggiunto dagli inglesi nel 1873 per facilitare la gestione del crescente traffico in entrata nella città vecchia. Al termine del lato orientale sorge un alto faro bianco ai piedi del quale si trova la Lighthouse Beach, una striscia di sabbia bianca dove ci si può fermare a riposare o a fare il bagno. Prima di addentrarvi tra le vie di Fort, visitate ancora l’Old Gate sopra il quale campeggia, splendidamente scolpito, lo stemma della Gran Bretagna e la scritta VOC (Verenidge Oostindische Compagnie ossia Compagnia Olandese delle Indie Orientali) con la data 1669;

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  • All’interno del Fort si trova la maggior parte degli edifici più antichi risalenti al periodo olandese. Meritano una visita la Dutch Reformed Church, con il suo pavimento ricoperto di lapidi provenienti da cimiteri olandesi e il suo organo, e la vicina All Saints Anglican Church in pietra, di architettura tipicamente inglese. Di fronte alle chiese si erge un campanile bianco del 1901 che dà l’allarme in caso di tsunami. Proseguendo per la vicina Queen Street vi imbatterete nella Dutch Governor’s House del 1683. L’edificio che ospitava il governatore è facilmente identificabile, poiché sopra l’ingresso principale sono scolpiti un gallo e l’anno di fondazione. Seguendo per Hospital Street ci si imbatte nel Dutch Hospital, un tempo ricovero di ammalati e appestati e ora trasformato in centro commerciale con eleganti caffè e boutique;

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  • Tra gli edifici di culto una menzione va alla Meehan Mosque, un’imponente moschea bianca che svetta a ovest del faro e combina stili architettonici differenti del barocco vittoriano e arabo e la dagoba buddhista Sudharmalaya Temple che ospita un grande Buddha sdraiato;

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  • Tra le molte costruzioni olandesi splendidamente restaurate che si incontrano a giro, ricordiamo l’Hotel Amangalla con il suo profondo porticato e il Fort Bazaar in Church Street 26, anche lui riconvertito in una struttura ricettiva. L’Amangalla in Church Street 10 fu costruito nel 1684 con la funzione di ospitare il governatore e i suoi funzionari. Successivamente venne trasformato nel New Oriental Hotel e divenne la sistemazione preferita dei passeggeri di prima classe dei transatlantici P&O nel XIX secolo. Dopo un periodo di declino nel XX secolo, è tornato ora ai suoi antichi fasti.

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La città nuova è vivace e frenetica. Prima di lasciare Galle concedetevi il tempo di una passeggiata nella trafficata Main Street. Raggiungete il Galle International Cricket Stadium che in passato era un ippodromo dove scommettevano gli inglesi mentre oggi ospita incontri di crickets di livello internazionale e il Dutch Market, un bel mercato alimentare che si tiene sotto un porticato vecchio di tre secoli.

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E tra le viuzze del Fort di Galle si conclude il nostro lungo giro in Sri Lanka. Mentre restituisco la bici per l’ultima volta e l’aria calda della sera mi accarezza la pelle bruciata dal sole, sento calare un velo di malinconia. Un respiro profondo ed ecco che la malinconia cede il posto a una profonda gratitudine. Grazie, a presto.

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Sri Lanka: il canto del mare e il profumo della cannella, benvenuti al sud

Benvenuti al Sud! La costa meridionale dello Sri Lanka è un rincorrersi di spiagge bianche a perdita d’occhio. Qui il sole è caldo, le onde si infrangono con fragore a riva, l’Oceano Indiano è caldo e cristallino, la frutta è generosa nella sua varietà e incredibilmente succosa, la gente cordiale. Un paradiso in terra insomma, dove riposare o in alternativa dedicarsi agli sport acquatici o alla corsa mattutina ai bordi dell’oceano.
E la natura, fragile e potente, ancora una volta è pronta ad accogliere e curare anima e corpo di chi è disposto a contemplarla e a viverla con il doveroso rispetto: madre accogliente e generosa, è un rimedio alle brutture quotidiane. È un richiamo forte alla dimensione collettiva della condizione umana. Il mare è lì per tutti ed è di tutti. C’era prima di noi e ci sarà dopo di noi. Ci ricorda che siamo di passaggio e ci consola con la sua bellezza. Ristabilisce equilibri e priorità. Quanto mi manca il mare e vivere la natura quotidianamente quando sono a casa, indaffarata a correre dietro scadenze, lavoro e faccende varie.
Qui, più che altrove, è un dovere essere pellegrini rispettosi e amanti dei posti che si visitano, viandanti che non lasciano traccia del loro passaggio, rispettosi dei luoghi, dei loro abitanti e della bellezza che incontrano. L’unico segno indelebile che i pellegrini portano a casa è invisibile e interiore, una traccia di pace e crescita.

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Noi abbiamo fatto base a Mirissa e per qualche giorno abbiamo respirato a pieni polmoni il blu dell’oceano. Se per caso il canto del mare dovesse venirvi a noia, potete pianificare un’escursione in una vicina piantagione di cannella. La nostra scelta è ricaduta sulla tenuta Mirissa Hills, una meravigliosa piantagione di 24 ettari adagiata sulle colline di Mirissa. È possibile prenotare un tour con pranzo incluso che sarà consumato sulla terrazza dell’hotel. Si potrà inoltre visitare liberamente l’interessante galleria d’arte moderna della villa. A fine pasto vi verrà servito un delizioso gelato alla cannella!
Durante la visita alla piantagione si apprenderanno i metodi di coltivazione, raccolta e lavorazione di questa antica spezia. Furono gli olandesi a introdurre nel 1600 la cannella in Europa, iniziando un commercio stabile con lo Sri Lanka e diventandone i principali importatori.
Sarà possibile camminare tra gli arbusti che possono vivere oltre 40 anni e osservare gli operai specializzati che raccolgono a mano la corteccia utilizzando un coltello e un tubo cilindrico in ottone. La cannella è il primo strato, immediatamente sotto il sughero, dei rami della pianta. I rami, una volta privati della parte esterna, vengono impiegati come legno da ardere o da costruzione.
L’albero della cannella è un sempreverde che può raggiungere i 10–15 metri di altezza. Le sue foglie hanno una forma ovale allungata e misurano fino a 20 centimetri di lunghezza. I fiori sono bianchi e riuniti in infiorescenze. La cannella viene raccolta una volta l’anno quando i rami più maturi vengono recisi alla base. E’ importante non rimuovere tutti i rami per non far morire la pianta. Le piantine più giovani non vengono potate per i primi 5 anni di vita. A Mirissa Hills la raccolta comincia ad agosto e dura tre mesi.

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La corteccia di cannella viene confezionata in tubicini lungo 50 centimetri o un metro e lasciata essiccare per almeno 5 giorni, dopodiché è pronta per essere esportata principalmente nei paesi arabi e in Europa. Questa spezia è usata in cucina, sia per preparare piatti dolci che per pietanze salate (curry, carni stufate, riso byriani) o per profumare il tè. Viene impiegata anche nella cosmesi per la produzione di profumi, dentifrici, saponi. Dalle foglie dell’arbusto si ricava un olio adatto per i massaggi. La cannella sarebbe inoltre un potente alleato contro colesterolo, diabete e pressione alta.

Foto di Emiliano Allocco (Clicca qui per vedere altre foto di Emiliano su Flickr)
 

Wellawaya, l’enigmatico Buddha scolpito nella roccia e le cascate di Diyaluma

A tre quarti d’ora di bus da Ella sorge la piccola cittadina di Wellawaya, una città-crocevia per i trasporti, senza particolari attrattive da offrire ai viaggiatori. Wellawaya è circondata da aride pianure che appartenevano all’antico regno di Ruhunu ed è un’ottima base per visitare il vicino sito di Buduruwagala e le belle cascate di Diyaluma. Fermatevi una notte, non di più.
A circa 5 chilometri dalla città, percorrendo una panoramica strada che costeggia un lago e meravigliosi paesaggi bucolici si raggiungono le sculture rupestri di Buduruwagala. Il nome significa “roccia delle sculture buddiste” e deriva dall’unione delle parole Budu (Buddha), Ruwa (immagini) e Gala (pietra). La storia del sito e delle sue origini rimane avvolta nel mistero, donando al luogo un’aura di suggestione e fascino. Si crede che questa roccia, sapientemente scolpita e nascosta nella giungla, fosse un tempio buddhista della corrente Mahayana, abitato da monaci eremiti oltre mille anni fa.

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All’improvviso tra la fitta vegetazione della giungla vi apparirà un’alta parete rocciosa, sulla quale sono scolpite 7 figure. Il gigantesco Buddha in piedi, al centro, è il più alto dell’isola e raggiunge i 15 metri. Osservandolo con attenzione, si noterà che conserva parte dell’originale stucco bianco che formava la sua veste. Una lunga striscia arancione ci fa supporre che originariamente la statua fosse dipinta a tinte vivaci. Alla destra del Buddha sorge un blocco di tre figure. Quella centrale, di bianco dipinta, si crede raffiguri Avalokitesvara, il bodhisattva della compassione. La figura femminile alla sua sinistra dovrebbe essere la sua consorte Tara. Secondo una leggenda locale, la terza statua rappresenterebbe il principe Sudhana.
Delle tre figure alla sinistra di Buddha, quella centrale indossa una vistosa corona e si pensa sia Maitreya, il Buddha del futuro, successore di Siddhartha, il Buddha Gautama secondo la cui profezia, Maitreya sarà il Buddha della compassione e delle benevolenza, un condottiero di uomini che governerà sul mondo conosciuto e sul cosmo. Sarà l’ultimo Buddha a comparire sulla terra, otterrà l’illuminazione completa, insegnerà il Dharma e i suoi discepoli saranno dieci volte più numerosi di quelli del Buddha Gautama.
Alla sinistra di Maitreya compare Vajrapani che regge tra le mani un vajra, una clessidra simbolo del fulmine. Alcuni dubbi persistono sull’identità della terza figura che potrebbe rappresentare Vishnu Sahampath Brahma. Alcune statue sono ritratte con la mano destra sollevata con due dita ripiegate verso il palmo, quasi a voler richiamare i visitatori. Il sito è ombreggiato, immerso in un silenzio totale e meta di pochi turisti. Potete fermarvi qui a meditare o a godere della pace del luogo.

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Nei dintorni di Wellawaya, meritano una visita le cascate di Diyaluma, le terze per altezza dello Sri Lanka. Con un salto di 171 metri, si tuffano dalla scarpata del Koslanda Plateau e formano un piccolo lago nel quale è possibile bagnarsi. Il sito sorge a 13 chilometri a ovest dalla città.
Sulla Ella-Wellawaya Road incontrerete anche le piccole ma incantevoli cascate conosciute come Ella Wala Falls. Fermatevi qui per un bagno in (quasi) completa solitudine, immersi nella natura e in fresche acque non molto profonde. Per raggiungerle costeggerete un’alta diga sulla quale ci si può arrampicare per godere di una bella vista sul paesaggio circostante.

Foto di Emiliano Allocco (Per vedere altre foto di Emiliano su Flickr, clicca qui)

Trekking nel parco nazionale di Horton Plains

Il Parco Nazionale di Horton Plains è un’area protetta nella regione della Hill Country, nel cuore dello Sri Lanka. Questo plateau è un altopiano ondulato situato a un altitudine compresa tra i 2.100 e i 2.300 metri s.l.m. All’orizzonte si scorgono il Kirigalpotta (2.395 mt) e il Totapola (2.357 mt), rispettivamente la seconda e la terza cima dell’isola per altitudine.
Ricoperte da vaste praterie intervallate a tratti da fitta foresta pluviale, formazioni rocciose, cascate e laghi, le Horton Plains si estendono su un’area di oltre 31 kmq.  Vantano una ricchezza di flora e fauna pressoché unica e sono l’habitat naturale di alcune specie animali e vegetali endemiche del posto. Le aree pianeggianti sono caratterizzate da grandi cespugli di trebbia dello Sri Lanka, mentre le zone paludose sono ricoperte da spessi strati di muschio. Numerosissimi sono i calofilli, alberi con una caratteristica chioma ad ombrello e fiori bianchi, e i rododendri arborei con i loro fiori di un rosso sanguigno.
La diversità di paesaggio va a braccetto con una ricca varietà faunistica. Nel parco vivono leopardi, cervi sambar e cinghiali, difficili però da avvistare di giorno. L’area è frequentata da molti appassionati di birdwatching poiché è possibile avvistare diverse specie endemiche.

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Questo parco è stato dichiarato area protetta nel 1988 ed è uno dei pochi parchi nazionali dello Sri Lanka dove i visitatori possono girare senza una guida, seguendo tuttavia percorsi tracciati obbligatori dai quali è vietato allontanarsi. Accedendo dal Visitor Center, si passa attraverso un severo controllo dei propri averi. Tutte le borse e gli zaini saranno aperti e ispezionati con cura e la plastica buttata via e sostituita, dove possibile, con involucri in carta. Gli oggetti considerati incompatibili con la visita del parco saranno trattenuti all’ingresso e restituiti solo all’uscita.
Immediatamente oltrepassato il visitor center, parte un circuito ad anello di 9.5 chilometri che attraversa parte dell’altopiano. Ci vorranno circa 3 ore per completare il trekking. Le Horton Plains terminano bruscamente all’altezza del World’s End, un’incredibile scarpata (senza barriere di protezione!) che si apre su un dirupo di 880 metri. La vista sulla vallata è incredibile, ma è necessario arrivare qui prima delle 9 di mattina. Se tarderete, avrete ottime probabilità di contemplare solo un muro grigio di nebbia. Il tempo cambia in fretta e nubi e foschia possono palesarsi all’improvviso. Il circuito prosegue fino alle Baker’s Falls per ricondurvi poi all’ingresso.
Questo sito è di una bellezza mozzafiato e permetterà ai viandanti di immergersi nella natura ancora incontaminata e di goderne appieno. La serenità risiede nelle piccole cose, si nutre di silenzio ed è più facile da incontrare in mezzo a praterie e foreste. La natura è una cura per l’anima e un ottimo riequlibratore di priorità ed energie. Così impermanente, eterna, senza confini, di nessuno eppure di tutti, ci ricorda della nostra temporaneità, mentre parla di eternità alla nostra anima. Qui più che altrove è un dovere essere pellegrini, amanti rispettosi del luogo che non lasciano traccia del loro passaggio. Le Horton Plains lasceranno invece una traccia di serena felicità in chi le visita.

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Alcune informazioni pratiche: le Horton Plains sono visitabili con una gita di un giorno se fate base a Ohiya (ca 10 chilometri), Nuwara Eliya (ca 30 chilometri) o Ella (ca 50 chilometri). Il mezzo di trasporto più comodo ed economico è il tuk tuk. Contrattate la tariffa in anticipo.

Foto di Emiliano Allocco (Clicca qui e vedi altre foto di Emiliano su Flickr) 

Ella, lentamente a giro tra le piantagioni del tè

C’è un treno che parte da Kandy alle 8,47 di mattina e attraversa meravigliosi paesaggi di verde dipinti, piantagioni di tè, terrazzamenti, cascate, suggestivi ponti su alti dirupi, montagne e una natura tropicale ancora selvaggia per arrivare a Ella a pomeriggio inoltrato. Un biglietto di terza classe, senza posti riservati, costa poco meno di 2 dollari. Difficilmente riuscirete a trovare un sedile libero alla partenza, il treno è sempre straordinariamente affollato. La terza classe vi permetterà di evitare i turisti che di solito acquistano biglietti di seconda categoria e di viaggiare alla maniera del posto, lentamente con i finestrini abbassati per sopravvivere alla calura, condivivendo il cibo con i vostri compagni di viaggio, scambiando i giornali da leggere, acquistando bevande o frittelle dai venditori che salgano sui vagoni quando il treno è fermo a una stazione di transito, chiacchierando e intrecciando nuove conoscenze. E’ un viaggio nel viaggio, tra bellezze naturali e panorami umani.
Ella invece è stata per me fonte di delusione. La piccola cittadina è affollata da locali trendy, musica contemporanea, ristoranti fusion. A tutti gli effetti un non-luogo, un posto senza grande personalità né radici, uguale a molti altri già visti in giro. E così, per me, Ella sta a metà tra un grande centro commerciale e un parco divertimenti per turisti rimbecilliti che hanno bisogno di spettacolarizzazione, emozioni forti, divertimento immediato e standardizzato. Un luogo emblema insomma della globalizzazione del turismo.
Ma non tutto è perduto! Ella è un’ottima base per trekking ed escursioni nella natura. Da qui si raggiunge a piedi il vicino Little Adam’s Peak. Dal centro di Ella imboccate la strada per Passara fino a raggiungere l’Ella Flower Garden Resort sulla destra. Prendete il sentiero che passa davanti a due guesthouse, The Chillout e The One e seguite poi le indicazioni che troverete sul sentiero. Parte di questo itinerario si snoda tra meravigliose piantagioni di tè. Partendo da Ella poco dopo l’alba, vi imbatterete in famiglie tamil che si recano al lavoro nelle piantagioni. Il Little Adam’s Peak raggiunge i 1.141 metri di altezza e se ne guadagna la vetta con una facile passeggiata di circa 45 minuti. Il nome di questa cima omaggia il più celebre Adam’s Peak di cui ricorda la sagoma. Scopri di più sull’Adam’s Peak cliccando qui.

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A 6 chilometri da Ella si trovano le Rawana Falls che si raggiungono facilmente a piedi. Se siete stanchi, potrete far ritorno in paese salendo su uno dei tanti bus pubblici che passano proprio davanti alle cascate.
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Un’altra facile escursione, molto ben segnalata, è quella che da Ella conduce al Demodara Nine Arches Bridge, un suggestivo ponte in mattoni alto 30 metri, immerso nella vegetazione rigogliosa, sul quale passa il treno sei volte al giorno. Il ponte si raggiunge in circa 30 minuti a piedi da Ella. Potete dirigervi qui Sulla strada del ritorno dal Little’s Adam Peak.
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Ella è la base perfetta per escursioni nelle vicine piantagioni del tè e per visitare una tea factory, una delle numerose fabbriche dove le foglie del tè vengono lavorate, essiccate e frantumate, pronte per essere esportate come Ceylon Tea (un ottimo tè nero) in tutto il mondo. La Russia, l’Iran, l’Iraq, la Turchia e l’Inghiterra sono i principali mercati di destino.
Il tè fu introdotto nell’isola dagli inglesi nel XIX secolo, quando le piantagioni di caffè del paese furono gravemente danneggiate da un parassita. La prima piantagione di tè fu la Loolecondera Estate, a sud di Kandy, fondata nel 1867. La regione della Hill Country si rivelò particolarmente favore per la coltivazione del tè: il clima era mite, l’altitudine adeguata e il terreno in pendenza. Nel decennio tra il 1870 e il 1880 le spedizioni di tè di Ceylon iniziarono a riempire i magazzini di Londra. Il pubblico sembrava insaziabile e la domanda continuava a crescere. I primi piantatori fecero enormi fortune, tra loro lo scozzese Thomas Lipton, fondatore di una rinomata marca di tè presente ancora oggi sugli scaffali dei supermercati di tutto il mondo.

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Durante la visita guidata a una fabbrica del tè si impareranno molte cose. Si verrà edotti sulla coltivazione delle piante da tè. Si imparerà che gli arbusti vengono piantati su terreni terrazzati a circa un metro di distanza l’uno dall’altro per favorire l’irrigazione e potati regolarmente per incoraggiare la crescita di nuovi germogli. Le foglie vengono raccolte a mano ogni 7/14 giorni, normalmente da donne tamil. Il raccolto medio di una giornata varia tra i 20 e i 30 chili. Le foglie vengono lavorate immediatamente e nell’arco delle 24 ore successive alla raccolta, il tè è pronto per essere spedito. Le foglie vengono prima parzialmente essiccate, poi sbriciolate, fermentate e infine nuovamente essiccate per interrompere il processo di fermentazione. L’arte della produzione del tè consiste appunto nel saper quando interrompere la fermentazione.
Si imparerà inoltre a riconoscere un tè di qualità e si procederà a una degustazione di miscele diverse. Le varietà di tè si classificano in base alle dimensioni (si va dagli economici tè in polvere ai più pregiati tè in foglie con gradi diversi di frammentazione) e alla qualità (pekoe, silver tips, etc). Con il termine pekoe orange pekoe si indica un tè nero di qualità superiore.
L’industria del tè in Sri Lanka dà lavoro a circa un milione di persone, il 5% della popolazione. Gli stipendi sono molto bassi: una raccoglitrice guadagna all’incirca 5 dollari al giorno. Le famiglie tamil vivono di solito ai margini delle piantagioni in baracche dove spesso mancano acqua ed elettricità. I lavoratori sono principalmente tamil dell’India. Gli inglesi, nel XIX secolo, fecero arrivare dalla vicina India numerosi braccianti tamil. I loro discendenti restano purtroppo un gruppo emarginato: braccianti senza terra, spesso discriminati a causa della diversità linguistica e culturale.
Come preparare una buona tazza di tè nero: 

  • Conservare il tè in un contenitore ermetico poiché tende ad assorbire odori e umori;
  • Portare l’acqua fresca a bollore (non usare acqua già bollita in precedenza);
  • Lasciare in tè in infusione tra i 3 e i 5 minuti massimo;
  • Evitate di aggiungere latte o zucchero che riducono il potere antiossidante della bevanda.

Noi abbiamo visitato la Uva Halpewaththa Tea Factory a 5 chilometri da Ella. Al termine della visita, si possono acquistare diverse miscele di tè al negozio interno. È  stata una visita molto interessante, caldamente consigliata.

Foto di Emiliano Allocco (Visita la pagina Flickr di Emiliano per vedere altre foto) 

A Kandy, storia e leggenda della sacra reliquia del dente di Buddha

La leggenda narra che, quando Buddha morì in India nel 483 a.C., i suoi discepoli riuscirono a strappare dalla sua pira funeraria un dente. Dopo alterne vicende, la sacra reliquia fu introdotta in Sri Lanka, nascosta tra i capelli di una principessa. Inizialmente il dente fu conservato ad Anuradhapura, l’antica capitale singalese, per essere trasferito poi da un luogo all’altro a seconda delle vicende storiche del paese, per giungere infine a Kandy, dove tutt’ora è conservato. Nel 1.283 d.C. fu riportato in India da un esercito invasore, ma fece ritorno in Sri Lanka per merito di re Parakramabahu III. Ben presto il sacro dente si guadagnò la fama di essere un “creatore di re”, chiunque ne fosse entrato in possesso era predestinato a governare l’isola. La custodia della reliquia assunse quindi un’importanza crescente come simbolo di sovranità. Nel XVI secolo i portoghesi si impadronirono di quello che credevano essere il dente di Buddha e con cattolico fervore lo bruciarono a Goa. In realtà furono ingannati dai singalesi e distrussero una copia della reliquia. Gli inglesi, al contrario, si rivelarono sorprendentemente rispettosi nei confronti della dente.
Tra il XVII e il XVIII secolo, i sovrani di Kandy fecero erigere un Tempio, che originariamente faceva parte del complesso del palazzo reale, per custodire il sacro dente. La reliquia è oggi conservata in un sacrario a due piani, noto con il nome di Vahanhitina Maligawa. La costruzione occupa il centro di un cortile lastricato ed è facilmente individuabile grazie a un vistoso tetto dorato.
Il Tempio del Sacro Dente riveste un’enorme importanza tra i buddhisti dello Sri Lanka che credono che vada visitato almeno una volta nella vita per acquisire meriti spirituali e migliorare il proprio karma. Il sito è quindi meta di pellegrinaggi costanti. Ogni anno, durante la poya (plenilunio) tra i mesi di luglio e agosto, si celebra a Kandy la Esala Perahera, una grande festa che commemora l’arrivo del dente in Sri Lanka. La sacra reliquia viene portata in processione tra le vie della città da un corteo di elefanti, riccamente bardati. L’elefante più grande trasporta un baldacchino, dove viene posta una copia del dente.

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Se capitate a Kandy, considerata la capitale culturale dell’isola, una visita al Tempio del Sacro Dente è d’obbligo.
La città, adagiata sulle sponde di un bel lago circondato da colline verdeggianti, vi apparirà caotica e trafficata, incredibilmente moderna e affollata di negozi alla moda, centri commerciali e rivendite all’ingrosso di chincaglierie piuttosto inutili. Qui più che altrove ho notato senzatetto e mendicanti che vivono per le strade cittadine. Questo sembra essere un effetto collaterale inevitabile del progresso. Là dove il benessere è maggiore, pare crescere in proporzione il numero degli esclusi e degli emarginati che non beneficiano di questa maggior ricchezza.

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Poco distante dal tempio sorge il Kandy Garrison Cemetery, il piccolo e malinconico cimitero della guarnigione inglese, molto ben curato, dove sono ospitate 163 tombe risalenti all’epoca coloniale. Merita una visita. Vi stupirà la giovane età in cui morirono molte delle persone qui sepolte. In pochi superavano i 40 anni. Le principali cause dei decessi erano da ricondurre a malattie, colpi di calore o attacchi di elefanti.

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Non molto distante svetta la St Paul’s Church, una bella chiesa coloniale in mattoni rossi. L’edificio in stile gotico era utilizzato dalla guarnigione inglese, di stanza nei pressi.

Foto di Emiliano Allocco (Vedi altre foto di Emiliano su Flickr)