Cà Phê, the beauty of silence

Oggi è stata una giornata fredda e piovosa a Hoi An. Abbiamo trascorso la mattina perdendoci senza meta tra le vie della città vecchia e del mercato cittadino.
Stanchi e infreddoliti, abbiamo deciso di concederci una pausa in una tipica casa da tè. Siamo entrati in un locale di D Tran Phu, la Reaching Out Tea House, e ci siamo goduti una delle migliori pause che ricordi.
Questa meravigliosa casa da tè, squisitamente arredata, ha una particolarità: tutto si svolge nel più assoluto silenzio. Si gesticola per farsi capire dalle cameriere, si sussurra appena nel caso il linguaggio dei gesti non sia esaustivo, si ordina usando carta e matita. Ogni tavolo è provvisto di una scatola in legno dentro la quale vi sono delle tessere, ognuna recante una scritta (Bill, Thank you, Cold Water, Hot Water, Ice…) da usare per facilitare una conversazione senza parole da pronunciare.
Una pergamena, scritta a mano, fa bella mostra di sé e riporta la frase The beauty of silence. In un angolo sono appese le regole della casa. Un decalogo di piccole buone abitudini da coltivare per una vita felice. Giochi in legno sono disponibili, in ceste, per tutti. Una mensola mette al servizio degli avventori libri da leggere, carta e penne per scrivere o disegnare, peluche per i più piccoli, gomitoli di lana e ferri.
Ci accomodiamo in una minuscola saletta affacciata su un curatissimo cortile interno. Scalzi, a gambe incrociate sul tatami, abbiamo aspettato di essere cerimoniosamente serviti: un tè Oolong -tipico della regione di Da Nang- per me, un Cà Phê per mio marito.
Il Cà Phê è il tradizionale caffè vietnamita, servito caldo o freddo -a seconda della stagione- e accompagnato da latte condensato e zucchero. Ha tempi da rispettare. Viene servito in una tazza in vetro sulla quale è appoggiato un filtro in alluminio contenente polvere di caffè. I camerieri versano acqua bollente sul filtro, la bevanda scura e densa comincia lentamente a sgocciolare nel bicchiere sottostante. Dopo alcuni minuti, il caffè è pronto. In estate, si aggiunge il ghiaccio. Ho appreso con curiosità che il Vietnam è il secondo paese al mondo per produzione di caffè.
Rimaniamo a lungo in questa casa da tè, incantati da tanta bellezza e coccolati da un silenzio e da una lentezza ai quali non siamo più avvezzi, abituati come siamo nella nostra quotidianità ad andar sempre di fretta, a un frastuono continuo, ad avere il televisore sempre accesso in sottofondo anche quando si fa altro, la musica perenne in macchina, troppe riunioni di lavoro piene di parole e povere di contenuti. Stare in silenzio all’inizio non ci riesce facile, ma dopo poco ci abituiamo. Una calma mi invade e il tempo che scorre non sembra più sfiorarmi. Mi godo la vicinanza di mio marito, la mente libera da pensieri e una tranquillità che mi riconcilia con il mondo.
Fuori ha smesso di piovere. Ci decidiamo a lasciare questa isola di quiete. Camminiamo vicini senza dire nulla, per non rompere l’incantesimo.
(Ph Emiliano Allocco)

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Tè vietnamita
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Cà Phê
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Un dettaglio nel cortile interno
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Giochi in legno per grandi e piccini
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L’angolo del relax: libri, carta e penna per scrivere o disegnare, peluche, ferri e gomitoli da intrecciare
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Le regole della casa del tè

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Cà Phê

 

 

 

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Tạm biệt Sài Gòn

Tạm biệt Sài Gòn! Arrivederci Saigon.
Oggi è il giorno in cui ci lasciamo la capitale sudvietnamita alle spalle e proseguiamo il nostro peregrinare verso il Vietnam centrale. Prima di partire ci immergiamo in una lunga esplorazione della città, alla ricerca della vecchia Saigon e alla scoperta del suo volto moderno. Di prima mattina esploriamo il parco 23/9 dove molte persone, per lo più anziani, salutano il nuovo giorno facendo ginnastica insieme a corpo libero o utilizzando gli attrezzi pubblici. Un rito meraviglioso, senza tempo, collettivo che si ripete ogni giorno uguale.  Ci rechiamo poi al mercato coperto di Ben Thanh, vivace e in fermento già all’alba. La sua torre dell’orologio, sopra l’entrata principale, è a pieno diritto uno dei simboli della moderna Ho Chi Minh City. Dopo aver ammirato il Museo di Belle Arti in un bel palazzo franco-cinese bianco e giallo, ci perdiamo tra i negozi di antiquariato in D Le Cong Kieu e proseguiamo poi la nostra esplorazione di un antico e vivace mercato alimentare in una via laterale, D Ton That Dam. Qui carni, pesce, frutta, verdura, riso, sementi sono in mostra sulle numerose bancarelle. Una gioia di colori e odori, di volti che si incontrano, di contrattazioni e affari da concludere. Vicino si innalza altissima la moderna Bitexco Financial Tower, un grattacielo di 262 metri progettato da Carlos Zapata. Raggiungiamo l’ampio viale che costeggia il fiume e ci concediamo una passeggiata lenta lungo le sue sponde. Scorgiamo il Majestic Hotel, un sontuoso edificio eretto nel 1925 e passato alla storia per essere stato usato dai giapponesi come caserma durante il secondo conflitto mondiale. Proseguiamo i nostri giri in quella che una volta era nota come rue Catinat, oggi rinominata Dong Khoi. Ammiriamo alcuni hotel storici, tra cui il Continental Hotel rifugio di corrispondenti di guerra accreditati, a partire dal conflitto con la Francia. Non posso fare a meno di pensare a Tiziano Terzani. Accanto sorge il Teatro dell’Opera. Si rincorrono lussuosi negozi dei più importanti brand mondiali di alta moda. Ci sediamo su alcuni gradini per riposare. Un ragazzo belloccio, in un elegantissimo vestito occidentale, ci chiede di alzarci. Ostruiamo l’ingresso a una boutique. Proseguiamo e raggiungiamo il vicino Palazzo del Comitato del Popolo davanti al quale campeggia una statua di Ho Chi Minh, il padre della patria, “il nostro caro zio” come lo ha chiamato il giorno precedente un ragazzo vietnamita con cui abbiamo stretto amicizia.
Raggiungiamo la cattedrale di Notre Dame dedicata alla Vergine Maria ed eretta sul finire del XIX secolo. Adiacente sorge il palazzo della Posta Centrale, imponente edificio in stile classico francese, progettato da Gustave Eiffel. Concludiamo la mattinata salendo al 23esimo piano della Centec Tower per ammirare Saigon, nella sua interezza, dall’alto.
Una città in fermento, caotica, inquinata. La rete metropolitana dovrebbe essere inaugurata nel 2018 e darà sollievo a  un traffico congestionato, non più gestibile. Nonostante tutto, una città che trasmette pace. Modernità e tradizione si incontrano ad un paio di strade di distanza. Impossibile non domandarsi cosa sia il progresso e se questa occidentalizzazione, questa crescita continua, questa colata di cemento, questa standardizzazione imperante, questo possedere oggetti sempre nuovi, sempre più numerosi, questo correre senza sosta -inseguendo cosa poi?- sia la risposta.
E’ giusto che qui si sogni il nostro sogno? Che la via principale sia invasa da negozi luxury occidentali? Che dai cartelli pubblicitari facciano capolino divi e celebrità occidentali che promuovono irresistibili tendenze e beni indispensabili che saranno superati tra una stagione? E’ progresso sostituire i mercati d’Asia con moderni supermercati con la luce al neon? Chissà dove si trova l’equilibrio e la chiave per un futuro sostenibile che traghetti l’oggi verso il domani, rispettando la storia di ieri. Senza lasciare indietro nessuno. Sarebbe meraviglioso se questa Asia trovasse la propria strada, senza dover copiare malamente un modello occidentale, in crisi profonda, che ha ampiamente dimostrato di non possedere tutte le risposte.
(Ph Emiliano Allocco)

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Al parco di prima mattina

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In vendita al mercato di Ben Thanh
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La statua di Ho Chi Minh campeggia trionfale di fronte al Palazzo del Comitato del Popolo
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La Cattedrale di Notre Dame

 

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Un palazzo nel centro città
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Vista di Saigon dal 23esimo piano della Centec Tower

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Nella giungla, sulle tracce della guerra

Nel pomeriggio, al ritorno da Tay Ninh, abbiamo fatto tappa a Cu Chi, il luogo simbolo della tenacia e della resilienza dei vietnamiti. Qui negli anni ’60 la rete di tunnel di Cu Chi divenne leggendaria perché permise ai vietcong di controllare un’ampia area rurale a poche decine di chilometri da Saigon. Nel periodo di massimo splendore, i tunnel si estendevano per 250 km partendo dalla capitale sudvietnamita e arrivando a lambire i confini con la Cambogia. Per lunghi tratti la rete di cunicoli si articolava su tre livelli: i tunnel più superficiali erano a 3 metri dal suolo, quelli intermedi a 6 metri di profondità e i gli ultimi a 10 metri sotto la superfice. Questo per resistere ai bombardamenti aerei americani. Le gallerie resero possibile la comunicazione e il coordinamento tra aree diverse in mano ai vietcong, ma soprattutto permisero ai vietcong di sferrare attacchi a sorpresa scomparendo poi improvvisamente in botole sotterranee. Grazie a queste gallerie, i vietcong riuscirono ad attaccare anche la vicina base americana di Dong Du.
Le gallerie di Cu Chi vennero costruite a partire dagli anno ’40 e furono ultimate nell’arco di 25 anni. Da principio vennero scavate durante la guerra contro i francesi. Negli anni’60 vennero ampliate e tornarono in uso contro gli americani. Rappresentarono la risposta di contadini poveri a un nemico addestrato e bene equipaggiato in possesso di armamenti sofisticati e costosi. Il terreno, durissimo durante i periodi di secca e soffice durante la stagione delle piogge, rendeva difficoltosi gli scavi. In media tre persone riuscivano a scavare 2 metri al giorno. Oggi è possibile visitare queste gallerie. Personalmente ho provato a percorrerne una, ma sono subito uscita: i cunicoli sono molto stretti, umidi, bui. E’ necessario strisciare per avanzare. Mio marito ha invece percorso 40 metri di un cunicolo a 6 metri di profondità e ne è uscito molto provato e scosso.
I vietcong impararono a mimetizzare gli accessi ai cunicoli con rami e foglie, cosparsero la giungla di trappole, molte delle quali costruite riciclando parti di bombe sganciate dagli americani, misero pepe e peperoncino sulle prese d’aria a terra per ingannare i cani-segugio degli americani, presero a vestirsi con le uniformi dei soldati americani uccisi per non essere riconoscibili. Nei cunicoli si viveva per giorni, settimane, mesi nascosti senza uscire in superfice durante i bombardamenti. Qui vennero allestite cucine (con sfiati per il fumo a parecchi metri di distanza) e ambienti per riposare. Quando l’esercito americano venne a sapere della presenza di queste gallerie, cercò di distruggerle in tutti i modi: con attacchi via terra, con bombardamenti aerei, irrorando la zona di gas, pesticidi, defoglianti e bruciando parti intere di giungla.
Ancora oggi sono visibili i crateri provocati dalle bombe: enormi buchi di 3 metri di profondità per 15 di lunghezza dove la vegetazione si sta facendo nuovamente largo. Ogni bombardiere poteva arrivare a sganciare 100 bombe, ognuna delle quali di 250 kg di peso.
Cu Chi venne dichiarato territorio a bombardamento libero. Una delle aree più devastate del Vietnam. Gli effetti dei gas e dei pesticidi sono ancora riscontrabili oggi sulla vegetazione e sulle persone.
Tutto questo per ricordarci quanto la guerra, tutte le guerre, siano tremende, disumane e ingiuste.
Al termine del percorso è stato allestito un poligono di tiro dove  è possibile sparare con fucili e pistole d’epoca. Perché?, mi domando io. Un modo sadico di burlarsi dei turisti  e guadagnare qualche dollaro in più? Molti dei nostri compagni di viaggio hanno pagato un extra sul biglietto di ingresso per poter provare l’ebrezza di sparare, per giocare alla guerra. Me ne domando il senso. Dopo tutto quello visto e sentito raccontare, l’unica necessità che sento profonda è quella di provare ad essere una donna di pace, non una bersagliera per sport.

 

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Gli ingressi ai cunicoli

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Alla scoperta del Caodaismo

Tay Ninh, a un centinaio di chilometri a nord-ovest di Saigon, è la capitale di una delle più interessanti religioni professate in Vietnam, il caodaismo, che conta circa 3 milioni di seguaci in tutto il mondo. Questa confessione fondata negli anni venti del XX secolo da Ngo Minh Chieu, funzionario dell’amministrazione pubblica vietnamita, fonde insieme filosofie e credi di Oriente e di Occidente. Tra i suoi profeti figurano Gesù, Buddha, Maometto, Confucio e Mosè, oltre a personaggi vari come Victor Hugo, Giovanna d’Arco e William Shakespeare.
A Tay Ninh sorge, imponente, la Santa Sede del Caodaismo, una pittoresca costruzione roccocò eretta tra il 1933 il 1955 che mescola insieme diversi elementi architettonici provenienti da chiese cristiane, moschee islamiche e pagode cinesi. I fedeli si radunano qui in assemblea quattro volte al giorno. Noi abbiamo avuto la fortuna di assistere alla preghiera di mezzogiorno.
I colori del caodaismo sono tre: giallo (buddhismo), rosso (taoismo), blu (confucianesimo) e il suo simbolo è l’occhio divino (un occhio sinistro per la precisione, scelto perché il più vicino al cuore). I sacerdoti, ossia gli anziani della setta, possono vestire tuniche gialle, blu o rosse. Ai fedeli invece è richiesto di vestire in bianco durante le cerimonie. Gli uomini indossano un piccolo copricapo nero. Le donne occupano la parte sinistra della sala di preghiera, gli uomini la parte destra in ottemperanza ai dettami dello Yin e dello Yang.
Un dipinto, esposto nell’atrio principale, cattura la mia attenzione: qui sono raffigurati i tre firmatari della terza alleanza tra Dio e gli uomini, lo statista e leader rivoluzionario cinese Sun Yat-sen, il poeta vietnamita Nguyen Binh Khiem e il poeta e scrittore francese Victor Hugo. Buona parte della dottrina caodaista si origina dal buddhismo mahayana, con influenze taoiste e confuciane. Il fine ultimo dei fedeli è di liberarsi dal ciclo delle reincarnazioni, evitando di dire falsa testimonianza, uccidere, rubare, vivere nel lusso e indugiare nei piaceri della carne. Confesso che fino ad un paio di giorni fa ignoravo l’esistenza di questa setta. Se interessati, sono reperibili maggiori informazioni all’indirizzo www.caodai.org
(Ph Emiliano Allocco)

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L’assemblea raccolta nella preghiera delle 12
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Un fedele caodaista
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Il dipinto murale nell’atrio centrale che raffigura i tre firmatari della terza alleanza tra Dio e gli uomini. Il secondo da sinistra è Victor Hugo.

Museo dei Residuati Bellici a Saigon

Saigon, calda, caotica, trafficatissima, dinamica. Ci accoglie al mattino presto e ci travolge con la sua energia. Raggiungiamo la zona di Pham Ngu Lao e cerchiamo sistemazione in un albergo. Dopo un veloce pranzo a un chiosco lungo la strada, ci rechiamo al Museo dei Residuati Bellici. Insieme al biglietto di ingresso ci viene consegnato un adesivo raffigurante una colomba, simbolo universale di pace.
Questo museo era conosciuto un tempo come Museo dei Crimini di Guerra Cinesi e Americani. Come pochi altri, racconta le atrocità, la violenza e l’ingiustizia della guerra. In modo diretto, quasi brutale, fa capire – se ancora ce ne fosse bisogno – come il prezzo più alto venga sempre inesorabilmente pagato dai civili. Molte delle fotografie in mostra permanente provengono da archivi americani.
Nel cortile sono esposti aerei da guerra, bombe, artiglieria pesante, carri armati e armi della fanteria americana. L’ala sinistra del cortile è dedicata al ricordo delle prigioni francesi e sudvietnamite sulle isole di Phu Quoc e Con Son: sono in mostra fotografie, testimonianze di sopravvissuti, strumenti di tortura, riproduzioni di celle di prigionia, una ghigliottina e le famigerate “gabbie di tigre”.
Mi siedo un attimo a riprendere fiato, bevo e tutto quello a cui riesco a pensare è racchiudibile nel pensiero Homo homini lupus, così antico e così ancora tremendamente attuale.
Proseguiamo la nostra visita all’interno dell’edificio. Cominciamo dal terzo piano a scendere. Qui in un’ala è allestita la Requiem Exhibition dedicata al ricordo dei reporter e fotografi di entrambi i fronti che persero la vita durante il conflitto nello sforzo di documentarlo. La mostra è curata dal fotografo di guerra Tim Page e sono visibili scatti di Robert Capa e Larry Burrows. Sono in mostra anche armi che ai tempi erano coperte da segreto militare come la flechette, una granata al cui interno erano collocate migliaia di frecce.
Il secondo piano testimonia i danni provocati sull’ambiente e sulle persone dal famigerato agente arancione, dal napalm e dalla diossina, danni riscontrabili ancora nelle seconde e terze generazioni. Ovunque si leggono i numeri della guerra: 3 milioni di persone uccise, 2 milioni di feriti, 300 mila dispersi, tonnellate di bombe sganciate, tonnellate di litri di diossina e napalm versati.
Il piano terra è invece un inno di speranza: qua sono riportati poster e fotografie provenienti da diverse parti del mondo che appoggiavano il movimento contro la guerra. Tra le molte frasi riportate ne leggo una che cattura la mia attenzione: The war is made by the politicians for the “national interest”. War deprives the lives, personal and public property, destroys the cultural and natural facilities. Many civilians have to sacrifice their lives for this “national interest”.
Usciamo. Mentre camminiamo in direzione del Palazzo della Riunificazione sono di pessimo umore. Mi torna in mente Buskashì, il libro di Gino Strada che racconta l’inizio del conflitto in Afghanistan, letto qualche mese fa e la sue lettera conclusiva indirizzata alla figlia Cecilia dove scrive: “Sarò sempre contro la guerra perché non sarei mai capace di vivere pensando a te in mezzo all’orrore”. Gia…
Raggiungiamo il Palazzo della Riunificazione, testimone della caduta di Saigon nel 1975. Qui il 30 aprile 1975, i carro armati comunisti divelsero i cancelli in ferro battuto, occuparono il palazzo e dispiegarono la bandiera vietcong dal suo balcone. Ho l’anima stropicciata. A piedi, a passo lento, ci avviamo verso l’hotel mentre il traffico impazzito della sera ci sfreccia accanto.

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Nel cortile del Museo dei Residuati Bellici, in esposizione artiglieria di guerra
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Il Museo dei Residuati Bellici – Saigon

 

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Il Palazzo della Riunificazione – Saigon
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Seduta davanti al Palazzo della Riunificazione in cerca di notizie

L’alba di un nuovo giorno sul delta del Mekong

Oggi è il 25 dicembre, per noi un Natale decisamente inconsueto. Siamo a Can Tho. La sveglia suona alle 4, alle 5 con lo zaino in spalle ci dirigiamo, assonnati e curiosi, verso il luogo da dove partono le imbarcazioni che solcano il Mekong. Mentre camminiamo penso ai miei genitori, tra poche ore si sveglieranno e comincerà la cerimonia del Natale, un rito che si ripete sempre uguale da quando ero una bambina. Sento un brivido di nostalgia e il senso di colpa per aver scelto di sottrarmi a questa tradizione. Poi la notte mi accarezza i capelli ancora umidi di doccia e spazza via ogni malinconia.
Siamo arrivati, siamo nel mezzo del caos vietnamita. I barcaioli, per lo più donne, cercano di accaparrarsi i turisti. In un attimo abbiamo preso accordi con una donna dal sorriso gioviale e dalla risata fragorosa. Cerimoniosamente ci fa accomodare su una piccola barca in legno, per l’occasione ricopre l’asse che funge da seduta per i passeggeri con un cuscino scolorito dall’usura. Ci regala una pagnotta di pane e un casco di banane. Il volto le si apre in un sorriso e ci sussurra: “Breakfast”. Parte la nostra esplorazione del delta del Mekong. In silenzio vediamo albeggiare. Mi godo la tranquillità del mattino, la pace che aleggia nell’aria quando i più ancora dormono. L’alba di un nuovo giorno, una promessa sussurrata alle orecchie dell’umanità, la quiete prima del tran tran della quotidianità.
Quando i colori della notte cedono il posto a quelli del giorno, la barca riprende a solcare dolcemente il Mekong e in un baleno ci ritroviamo ai mercati galleggianti.
Numerose barche, ammainate lungo il fiume, come moderni pirati, battono bandiera di mercanzie pronte per essere vendute: uova, ortaggi, zenzero, ananas, cocomeri, mango, frutti esotici, cibi cucinati sul momento e vestiti. Una meraviglia di colori, odori, sapori. Una brulicante umanità operosa in mezzo al Mekong. La nostra capitana vede il nostro entusiasmo e, compiaciuta, ci elenca in inglese i nomi dei frutti in vendita. Premurosa, acquista per noi frutti che consumeremo durante il resto della giornata. Un giorno speso ad esplorare il delta del Mekong, un giorno che ricorderò.
(ph Emiliano Allocco)

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In esplorazione ai mercati galleggianti sul delta del Mekong
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L’alba di un nuovo giorno

 

 

Un Natale speciale

Una foto che racconta un momento di relax, la pausa dopo il pranzo del giorno di Natale. Un’amaca lungo il delta del fiume Mekong, aria calda, ottimi noodles per pranzo. Decisamente un Natale esotico per chi è abituato al freddo e alla neve. Natale al caldo, una buona abitudine da ripetere, of course.

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Una volta all’anno visita un posto in cui non sei mai stato, una volta all’anno fai qualcosa che non hai mai fatto

In Asia ci andai per la prima volta alcuni anni fa, avevo 23 anni, poca esperienza di viaggio alle spalle e nessuna esperienza di viaggi in solitaria. Il mio inglese ai tempi, beh, in tutta franchezza, era un disastro. Parlavo poco, capivo ancora meno e gesticolavo molto. Avrei potuto competere con il ministro Alfano e probabilmente ne sarei uscita perdente. E’ tutto detto!
Da allora il mio amore per l’Asia è cresciuto e si è radicato, il mio inglese is very good now (quasi sempre riesco a spiegarmi senza dover ricorrere al linguaggio dei segni) e i paesi esplorati sono aumentati. Quando posso, torno in Asia. Ho spesso visitato paesi nuovi, fatto nuove scoperte, mangiato cibi esotici (alcuni senza ben capire cosa fossero) e viaggiato con molti mezzi: aerei, treni notturni, treni diurni su sedili duri, biciclette a noleggio, tuc tuc, metropolitane, bus, taxi, cabble way, auto private, barche. Mai avevo osato salire su uno scooter in una città d’Oriente caotica e trafficata. Mai prima d’oggi ero salita su uno scooter, neanche in Italia.
Oggi a Can Tho ho vissuto una nuova esperienza: ho dovuto raggiungere l’hotel in scooter dalla stazione dei bus. Nessun taxi era libero: troppi turisti, è la Vigilia di Natale anche qua. Un viaggio di tre quarti d’ora buoni in sella a uno scooter con un guidatore esperto e avvezzo al rischio. Lui, io un po’ meno. I motorini in Asia abbondano, il traffico brulica, la creatività al volante eccelle. Che viaggio, che corsa, che emozione. Contromano, infilati tra bus e auto, in mezzo ad altri motorini, tanti, noi veloci tra il traffico impazzito. Per un attimo ho avuto di nuovo 23 anni e la meraviglia negli occhi. In bici a Mandalay, pensavo di aver vissuto un’esperienza estrema, nulla in confronto ad oggi.

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Un altro giro

Un altro giro, l’ultimo per questo anno che volge al termine. Ogni partenza ha i suoi riti che si ripetono, sempre uguali, sempre solenni. Una cerimonia che propizia il viaggio e ne sancisce ufficialmente il via. Una gioia per i malati di partenze. Tutto comincia quando si apre il cassetto dei viaggi, il terzo dall’alto del mobile in salotto, e il passaporto vestito di un nuovo visto fa la sua uscita trionfale. E poi via a prepara lo zaino! “Mi raccomando, minimalismo”, ripete mio marito. Il solito scettico.
Ho già deciso da giorni quali libri portare con me, il grosso del lavoro è fatto. Piego i vestiti indispensabili e li sistemo temporaneamente sul letto. Una volta finito, è un attimo capire che quella pila non entrerà mai nello zaino. “Cosa ti avevo detto?”, lo scettico docet. “Non hai bisogno dei trucchi, sei bellissima così. Cosa te ne fai di tutti quei vestiti?”. E così lascio a casa il beauty case, le scarpe di ricambio, le gonne, una felpa e tutto quello che è triplo. Pochi vestiti, li laveremo durante il viaggio. Zaino in spalle e si parte. Entrare in aeroporto è sempre emozionante. Un paio di scali e saremo altrove. Arrivare in un posto nuovo, dove non si conosce nessuno, dove nulla è familiare e tutto è da imparare è per i drogati di partenze una gioia indescrivibile. Ed ora eccomi qua, in una sala d’attesa affollata e calda,  ad aspettare un bus per Can Tho dopo due giorni in giro, struccata, spettinata, vestita contro ogni buon gusto modaiolo. Rido pensando a cosa direbbero le mie colleghe fashion addicted, se mi vedessero ora. Felice, curiosa, in pace, leggera. Bellissima, come direbbe lo scettico, nonostante tutto.

Si legge per…

Si legge per molte ottime ragioni. Elencarle tutte sarebbe quasi impossibile. Tra appassionati lettori, tra portatori sani di questo meraviglioso virus, ci si intende senza bisogno di troppe parole.
Volendo tuttavia provare a spiegare perché leggere è a pieno diritto uno dei vizi più virtuosi del Creato, si potrebbe dire che si legge per imparare, per formasi una cultura che come ci ricorda il buon Aristotele è un ornamento nella buona sorte ma un rifugio nellavversa, per imparare a stare soli, per esercitare la fantasia, per vivere vite e avventure di altri, perché un libro è la macchina del tempo che sognavamo di provare da bambini e ci tele-trasporta in spazi e tempi altri, per ampliare la nostra sensibilità (fare un giro nelle scarpe di qualcun altro non può che far bene), per viaggiare da fermi quando si è impossibilitati a farlo per davvero, per rendere la routine e la quotidianità più sopportabili, per ritagliarsi un tempo proprio fuori dal tempo all’interno della frenesia moderna.
Ma leggere in preparazione di un viaggio, leggere per scoprire come una società diversa di un paese ancora sconosciuto si organizza, prega, mangia, ama e si diverte, quale Storia e quali storie siano dietro a quel che oggi è visibile resta per me, tra i piaceri, il più raffinato, di gran lunga il mio preferito.
Leggere di esperienze, idee e avventure di altri viaggiatori, poter trasformare questa conoscenza acquisita sui libri di altri, meravigliosa ma pur sempre di seconda mano, in conoscenza  propria, di prima mano, è una gioia incontenibile.
Il viaggio comincia quando lo si sogna, quando lo si immagina. Inizia qua. Tra le pagine di un libro che si trasformerà presto in realtà.