Alla scoperta del Piemonte, la Riserva Naturale dei Ciciu del Villar

In Val Maira in località Costa Pragamonti, nei pressi dell’abitato del comune di Villar San Costanzo, tra Busca Dronero, si trova la Riserva Naturale dei Ciciu del Villar, un’area protetta del Piemonte istituita nel 1989 a tutela di un fenomeno di erosione piuttosto particolare, le colonne di erosione, anche note come piramidi di terra o, in piemontese, cicio ‘d pera. La riserva sorge ad una quota compresa tra i 670 e i 1.350 metri di altitudine e si estende su una superficie di 64 ha ai piedi del massiccio del monte San Bernardo. Le colonne di erosione sono sculture morfologiche naturali dalla tipica forma a fungo, dove il gambo è formato da terra e pietrisco ed è in genere di colore rossastro per la presenza di ossidi e idrossidi di ferro. I cappelli sono costituiti da massi erratici, a volte di notevoli dimensioni, che si sono distaccati dalle pareti rocciose. I crolli sono stati provocati, molto probabilmente, da eventi sismici che in questa zona si ripetono con una certa frequenza. La formazione dei ciciu è stata determinata da un processo di erosione fluviale, per effetto del quale le porzioni di terreno che erano protette dai massi di gneiss sono state preservate dalla demolizione operata dalle acque correnti e dalle piogge e sono emerse progressivamente come colonne incappucciate, mentre il terreno circostante veniva lavato via dagli affluenti del Rio Fanssimagnia. Questa azione erosiva è ancora in atto. In dialetto piemontese ciciu significa pupazzo o fantoccio. 

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Quanti sono i ciciu del Villar?
Nel 2000 è stato effettuato un vero e proprio censimento dei ciciu del Villar a cura di Alberto Costamagna, ricercatore del dipartimento di Geografia Fisica dell’Università di Torino. In questa occasione sono stati contati 479 ciciu concentrati per lo più in un’area di circa 0.25 km², a volte isolati, a volte raggruppati. Le dimensioni dei funghi di pietra possono variare notevolmente. I pinnacoli possono avere un’altezza che va dai 50 centimetri ai 10 metri, anche se generalmente non superano i 2 metri, mentre il loro diametro oscilla tra 1 e 7 metri. I cappelli possono raggiungere anche 8 metri di larghezza.

Storia e leggenda

La storia ci dice che i ciciu si sono formati presumibilmente al termine dell’ultima era glaciale, in seguito allo scioglimento dei ghiacciai che portò il torrente Faussimagna, affluente di sinistra del torrente Maira, ad esondare, erodendo le pendici del monte San Bernardo e trasportando a valle un’enorme massa di detriti. In seguito, molto probabilmente per effetto di frane e terremoti, i massi staccatisi dal monte San Bernardo rotolarono a valle e ricoprirono il terreno alluvionale. A poco a poco il Faussimagna ricoprì anche le pietre scure, fino a quando, per effetto dei violenti movimenti tettonici avvenuti durante il Pleistocene superiore, il terreno subì un improvviso innalzamento e il fiume si ritrovò a scorrere più in basso. Iniziò quindi ad erodere il terreno, riportando alla luce i sassi che aveva ricoperto, arrotondandoli e levigandoli a poco a poco. Allo stesso modo il terreno subì l’azione erosiva degli agenti atmosferici: ma mentre il terreno poco coerente del versante della montagna venne portato via facilmente, i sassi fornirono una sorta di protezione alle colonne di terreno sottostanti, riparandoli come se fossero ombrelli. Il risultato è quello che vediamo ancora adesso, ossia massi erratici sorretti da colonne di terreno: qualcuno li chiama funghi, altri più poeticamente li hanno soprannominati camini delle fate.
Molte leggende popolari cantano l’origine dei ciciu che sarebbero sorti per incantesimo o per miracolo. Secondo alcuni, i ciciu non sarebbero altro che masche (le streghe della tradizione piemontese) trasformate in pietra dopo che un uragano avrebbe interrotto un loro sabba. Ma la leggenda più celebre sull’origine di ciciu è legata a San Costanzo, un legionario romano di Tebea che sarebbe stato martirizzato intorno all’anno 303-305 d.C., durante la persecuzione dei cristiani attuata dall’imperatore Diocleziano, proprio sulle pendici del monte San Bernardo. San Costanzo, oggi santo patrono di Villar, fu tra i primi martiri evangelizzatori della dottrina cristiana nelle vallate cuneesi. Mentre fuggiva nei boschi, braccato dai soldati romani, giunto alla Costa Pragamonti si voltò verso i suoi inseguitori e urlò: “O empi incorreggibili, o tristi dal cuore di pietra! In nome del Dio vero vi maledico. Siate pietre anche voi!” E così cento legionari all’istante furono trasformati in ciciu di pietra. Altri legionari tuttavia raggiunsero San Costanzo e lo martirizzarono sulla collina che sovrasta Villar, dove oggi sorge il Santuario di San Costanzo al Monte. 

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Flora e Fauna della Riserva Naturale
Il territorio della Riserva è stato in passato coltivato dall’uomo e poi abbandonato. Oggi la natura ha ripreso il sopravvento ed è ricca di querce, castagni, pioppi tremoli, betulle e aceri montani. Nell’area si trovano piccoli boschi di conifere, frutto di rimboschimenti artificiali, piante da frutto e altre ornamentali. La presenza di boschi fitti su tutto il territorio e di rocce emergenti al limitare della vegetazione rendono la Riserva un luogo adatto alla vita di numerose specie di uccelli come il picchio muratore, il picchio rosso minore, il picchio verde, diverse famiglie di cince, il codibugnolo, il fiorrancino e il regolo. Tra i rapaci spiccano la poiana e il falco pellegrino, nidificante da anni nelle aree limitrofe. Fra i rapaci notturni è documentata la presenza di civette, allocchi e barbagianni. I mammiferi sono rappresentati da volpi, cinghiali, caprioli, donnole, faine, tassi e scoiattoli. Si possono osservare alcune specie di serpenti tra cui il biacco, la natrice dal collare, la vipera comune e la coronella. infine la salamandra comune e il tritone vivono nelle pozze e nei ruscelli.

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Curiosità: il ponte tibetano sospeso sul torrente Maira che unisce Monastero di Dronero e Morra Villar San Costanzo
Da giugno 2019 un ponte tibetano pedonale e ciclabile lungo 70 metri, sospeso a 20 metri di altezza sul torrente Maira, unisce la frazione Monastero di Dronero direttamente a Morra Villar San Costanzo. La struttura è stata progettata dall’ingegnere Livio Galfré su incarico dell’Unione Montana e offre il pretesto per un’escursione dalla vicina Riserva dei Ciciu del Villar.

Dove: Via Ciciu 43 – 12020 Villar San Costanzo (CN)
Quando: l’area è aperta e visitabile tutto l’anno ed è dotata di servizi igienici, di aree attrezzate per il pic-nic e di giochi per i più piccoli. Per informazioni aggiornate sull’apertura del Centro Visite e sulle tariffe d’accesso è possibile consultare la pagina dell’Associazione Provillar che gestisce la Riserva o telefonare dalla primavera all’autunno, tutti i giorni dalle ore 9.00 alle 19.00, al numero 327 117 6661.
Sul web: http://www.ciciudelvillar.areeprotettealpimarittime.it/

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Villaggio operaio di Crespi d’Adda, la storia straordinaria di un esperimento sociale e imprenditoriale

“Grave è la questione degli infortuni in Italia, specialmente nella filatura del cotone; e quando gli imprenditori di una grande industria avranno applicato tutti i mezzi suaccennati per prevenire e attutire gli effetti degli infortuni, avranno compiuto un sacrosanto dovere, ma saranno ancora ben lungi dall’aver riconosciuto e soddisfatto a tutte le responsabilità che loro spettano. L’uomo, creatura essenzialmente libera, amante d’aria e di luce e bisognosa di svilupparsi al sole nel salutare travaglio della sua genitrice, la terra, è costretto invece dalla civiltà ad accomunarsi con altri suoi simili, fino a diventare un semplice organo di una macchina enorme, a servire soltanto come un ingranaggio. La grande industria è dunque contraria alla natura umana, al suo sviluppo fisico. La responsabilità di quegli imprenditori è dunque incalcolabile, come immensa la latitudine del loro dovere, il quale consiste nel conciliare le necessità dell’industria colle esigenze della natura umana, in modo che i progressi dell’una non siano mai per inceppare lo sviluppo dell’altra. […] Ultimata la giornata di lavoro, l’operaio deve rientrare con piacere sotto il suo tetto: curi dunque l’imprenditore che egli vi si trovi comodo, tranquillo ed in pace; adoperi ogni mezzo per far germogliare nel cuore di lui l’affezione, l’amore alla casa. Chi ama la propria casa ama anche la famiglia e la patria, e non sarà mai la vittima del vizio e della neghittosità. I più bei momenti della giornata per l’industriale previdente sono quelli in cui vede i robusti bambini dei suoi operai scorrazzare per fioriti giardini, correndo incontro ai padri che tornano contenti dal lavoro; sono quelli in cui vede l’operaio svagarsi ed ornare il campicello o la casa linda e ordinata; sono quelli in cui scopre un idillio o un quadro di domestica felicità; in cui fra l’occhio del padrone e quello del dipendente, scorre un raggio di simpatia, di fratellanza schietta e sincera. Allora svaniscono le preoccupazioni di assurde lotte di classe e il cuore si apre ad ideali sempre più alti di pace e d’amore universale.” Così scriveva nel 1894 Silvio Benigno Crespi nella sua opera giovanile “Dei mezzi per prevenire gli infortuni e garantire la vita e la salute degli operai nell’Industria del cotone in Italia”.
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Imprenditore, cofondatore e presidente dell’Associazione Cotoniera, deputato e senatore nelle file dei liberali cattolici, teorizzatore e appassionato propugnatore di un’idea sociale del fare impresa, Silvio era il figlio primogenito di Cristoforo Benigno Crespi. Si laureò in giurisprudenza all’Università degli Studi di Pavia ad appena 21 anni, si recò in seguito in Francia, Germania ed Inghilterra per seguire gli sviluppi dell’industria cotoniera. Collaborò prima e successe poi al padre nella conduzione del cotonificio di Crespi d’Adda che ampliò insieme al villaggio operaio.
Crespi d’Adda si trova alla confluenza dei fiumi Adda e Brembo, in territorio bergamasco. E fu qui, in quest’area dedita all’agricoltura di mera sussistenza ed economicamente depressa, che nel 1878 Cristoforo Benigno Crespi impiantò la filatura del cotone. I 5.000 fusi iniziali ben presto raddoppiarono e in poco tempo divennero 80.000. Si aggiunsero i reparti di tessitura e tintoria, rispettivamente nel 1894 e nel 1898. Il cotonificio raggiunse dimensioni enormi e arrivò a dare lavoro a 4.000 persone. Nel 1904 Cristoforo Crespi fece costruire anche la centrale idroelettrica di Trezzo d’Adda, oggi nota come Taccani. In parallelo sorse il villaggio, una vera e propria cittadina costruita dal nulla dai Crespi per i loro dipendenti e per le famiglie di questi. I lavoratori avevano a disposizione una casa con orto e giardino e tutti i servizi necessari: un lavatoio per evitare la fatica di recarsi al fiume con ceste pesanti, una chiesa, un dopolavoro, un complesso sportivo, mense, scuole gratuite, un ospedale di primo soccorso e un cimitero. In questo piccolo mondo perfetto, il padrone regnava dal suo castello e provvedeva ai bisogni dei suoi dipendenti come un buon padre di famiglia, dentro e fuori la fabbrica, dalla culla alla tomba, anticipando le tutele sociali dello Stato e colmando i suoi ritardi nella legislazione in materia. Dopo le tre case plurifamigliari degli inizi, attorno all’opificio sorsero numerose casette operaie bifamigliari e, dopo la Prima Guerra Mondiale, villette per impiegati e dirigenti. I criteri che mossero progettisti e architetti furono improntati a geometria, razionalità, funzionalità e… bellezza! L’intero villaggio gioca sul binomio funzionalità e arte, perché anche e soprattutto in un contesto produttivo la bellezza è imprescindibile dalla vita umana e contribuisce a dare un senso all’esistenza, elevandola ai massimi termini. L’armonia d’insieme appare ancora più sorprendente se si considera che l’intero complesso venne realizzato in anni diversi e la fase di sviluppo durò complessivamente quasi cinquant’anni. Particolarmente interessante è la chiesa di Crespi, copia perfetta di quella di Busto Arsizio, edificio di scuola bramantesca. I Crespi vollero omaggiare con questo gesto d’affetto il loro paese d’origine e la cultura italiana. Il 5 dicembre 1995, l’UNESCO ha inserito Crespi d’Adda tra i siti patrimonio mondiale della cultura (World Heritage List) in quanto “esempio eccezionale del fenomeno dei villaggi operai, il più completo e meglio conservato del Sud Europa”.

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Alcune curiosità su Crespi d’Adda:
–  Crespi d’Adda fu il primo villaggio in Italia ad essere dotato di illuminazione pubblica con il sistema moderno Edison;
–  Nella scuola di Crespi, riservata ai figli dei dipendenti, tutto era pagato dalla fabbrica, dalla cancelleria ai libri di testo, allo stipendio degli insegnanti;
– A inizio Novecento, venne costruita una piscina coperta gratuita con docce, spogliatoi e acqua calda;
– Crespi, seppure situata in provincia di Bergamo, ha il prefisso telefonico di Milano poiché i Crespi fecero installare una linea telefonica privata a lunga distanza che collegava il loro castello con la residenza di Milano;
– Silvio Benigno Crespi rappresentò l’Italia ai trattati di Versailles dopo la Prima Guerra Mondiale;
–  Silvio Benigno Crespi, appassionato d’auto, promosse negli anni Venti la costruzione delle prime autostrade d’Italia e dell’autodromo di Monza;
–  I Crespi erano appassionati d’arte e tra le opere della loro collezione privata, ora ospitata in vari musei del mondo, c’era La Schiavona di Tiziano.
Il cotonificio non non resse l’urto della Grande Depressione. Nel 1930 i Crespi dovettero rimettere tutto nelle mani della creditrice Banca Commerciale Italiana. La fabbrica rimase in funzione, con fortune alterne e diversi proprietari, fino al 2003 senza cambiare mai il settore di produzione, il tessile cotoniero. Oggi il villaggio è abitato da una numerosa comunità di discendenti degli operai che qui vissero e lavorarono ed è possibile visitarlo.
Per maggiori informazioni e per organizzare la vostra visita:
http://www.villaggiocrespi.it/
Dove: Piazzale Vittorio Veneto 1, Crespi d’Adda. Il Villaggio Crespi d’Adda si trova lungo l’autostrada Milano – Bergamo (uscita Capriate)

Foto di Emiliano Allocco (clicca qui per vedere altre foto di Emiliano su Flickr)

Varanasi, sospesa tra terra e cielo

Varanasi è adagiata sulla sponda occidentale del fiume Gange e qui si estende per chilometri. Dalla riva del Gange i viaggiatori devono arrampicarsi su ripide scalinate, i ghat, per raggiungere un labirinto di vicoli, angusti e bui, che formano il cuore antico della città. Il lato opposto del fiume è una lunga spiaggia di sabbia bianca, spoglia, non edificata. Il sole del mattino svela un lungofiume di palazzi storici decadenti e costruzioni fatiscenti, illumina alberi le cui radici spezzano il terreno, scalinate irregolari e un’umanità colorata, già operosa. Le viscere della città sembrano inghiottire i viandanti: si dipanano in un dedalo di vie minuscole, gali, dal selciato irregolare, troppo strette per permettere il passaggio di automobili, dove le immondizie sono abbandonate a terra, le vacche bivaccano ad intralciare la via e poi il buio, i negozi, i vivi che camminano veloci, i morti che vagano, gli dei che abitano nelle nicchie votive. Se vi sentite persi, alzate gli occhi e controllate che sopra di voi, oltre i grovigli di fili elettrici su cui saltano le scimmie, ci sia ancora il cielo. Varanasi è sporca, ladra, bugiarda, maleodorante, difficile, chiassosa, eppure non può lasciare indifferenti. Se non suscita in voi un immediato e forse giustifato sentimento di repulsione, è molto probabile che vi affascinerà e che diventi uno dei vostri luoghi del cuore.
Varanasi è tra i centri abitati più antichi del mondo. I primi insediamenti risalgano al 1200 a.C. Nel tempo ha avuto molti nomi: è stata Kashi la luminosaAnandavana la foresta di beatitudiniAvimukta la mai abbandonataBenares o Banares al tempo del colonialismo inglese e oggi Varanasi, che forse indica la sua collocazione geografica sul fiume Gange delimitato dai suoi due affluenti, il fiume Varana a nord e a sud il rigagnolo Assi. Nell’immaginario collettivo è il luogo dell’altrove, dove risiede Shiva e dove vita e morte coabitano. E’ uno dei siti più sacri dell’India per gli Hindu, dimora di asceti che percorrono vie estreme di rinuncia e meta costante di pellegrini che qui compiono rituali antichi e fanno generose donazioni alle istituzioni religiose nella speranza di ottenere meriti spirituali per una rinascita migliore nella prossima vita. Gli Hindu scendono i ghat per andare a lavare i peccati terreni nelle acque di Ganga o per cremare i loro cari.
Abitata dai bhut, spiriti dannati che vagano alla ricerca di un po’ di pace e che interagiscono spesso in modo molesto con i vivi, Varanasi è il luogo dove mondi diversi si incontrano: vivi, morti, antenati, guardiani, dei, spiriti camminano tra le sue strade. Dopo la cremazione gli spiriti dei morti attraversano una fase intermedia prima di entrare nel mondo degli antenati: in questo periodo vagano e possono rimanere attaccati ai vivi, se i riti funebri non sono stati eseguiti secondo tradizione. Chi invece ha sperimentato una morte prematura o violenta rimane impigliato in una dimensione di mezzo e non riesce a trovare pace. Questi spiriti spesso sfogano rabbia, insoddisfazione, ora gelosia contro i vivi che devono propiziarseli attraverso offerte per tentare di pacificarli. E così donne morte prematuramente o immolate sulla pira funeraria del marito, morti ammazzati, eroi locali diventano, se pacificati, custodi dell’area dove hanno vissuto, vegliando infine sui vivi. Li troverete in piccoli santuari ai crocicchi delle strade. Fateci caso.
La vita spirituale di Varanasi ruota intorno ai suoi 80 ghat, la maggior parte dei quali è usata per scendere sulla riva del Gange e bagnarsi, ma ci sono anche diversi ghat funerari dove i cadaveri vengono cremati in pubblico. Il principale è quello di Manikarnika. Il momento migliore per visitare i ghat è l’alba: si potrà osservare una bella mescolanza di genti che va al Gange per il bagno rituale, per fare yoga insieme, per lavare i vestiti, per acquistare fiori o fare il bagno ai bufali, per farsi fare un massaggio o giocare a cricket o ancora per fare l’elemosina ai mendicanti per far progredire il proprio karma. Un’escursione in barca lungo il fiume è il modo migliore per approcciarsi alla città.
Il Manikarnika ghat è il luogo più propizio dove ogni buon Hindu vorrebbe essere cremato. I cadaveri vengono presi in custodia da un gruppo di domintoccabili, e portati in processione su una barella di bambù ricoperta da un sudario tra le vie della città, fino alle sacre acque di Ganga. I corpi vengono immersi nelle acque del fiume e poi portati alla cima del ghat, impilati in cataste di legna da ardere e cremati. Ogni tipo di legno ha un costo diverso, quello più pregiato è il sandalo. Saper utilizzare la giusta quantità di legna per cremare i corpi è considerata una vera e propria arte. Si può assistere alla cremazione, ma è vietato scattare fotografie. Verrete probabilmente avvicinati da un sacerdote che si offrirà di condurvi in un posto migliore da cui assistere alle cremazione. Non seguitelo, se non siete disposti a lasciare una mancia. L’Assi Ghat, a sud dei ghat principali, è un buon posto dove osservare le puja (preghiere o offerte) al sole che sorge al mattino, mentre il Dasaswamedh Gath è molto suggestivo al tramonto poiché qui ha luogo la cerimonia del Ganga Aarti, l’adorazione del fiume. Non mancate di visitare il Vishwanath temple, il tempio d’oro, il più popolare tra i templi cittadini dedicati a Shiva con i suoi 800 chili d’oro a ricoprire la torre e la cupola.
La morte è un affare reale qui, quasi la si può sperimentare da vivi. Varanasi è la promessa della liberazione dal ciclo di morte, reincarnazione e rinascita e attira fedeli da ogni angolo del paese. Se qui esalerai il tuo ultimo respiro o se qui verrai anche solo cremato, Shiva il traghettatore verrà a sussurrare al tuo orecchio la formula segreta per la liberazione. E così un’umanità varia, malata, acciaccata viene qui a morire, nella speranza di non rinascere più in questo mondo. Il fuoco arde sempre e le ceneri dei morti vengono disperse nell’aria e tra le acque di Ganga, senza sosta. Fermatevi a bere un chay bollente, il dolcissimo tè nero con latte, profumato da zenzero, cannella, pepe nero e cardamomo. Lasciate che questa città vi parli. Varanasi non è la stessa per me e per voi e probabilmente non vi dirà le stesse cose in fasi diverse della vostra vita. Come tutti i luoghi che hanno qualcosa da dire, non risponde a nessuna domanda, ma sa sollevare nuovi interrogativi. Me ne sono andata delusa, cercavo una risposta che non ho trovato. Un anno dopo so che la risposta è una domanda nuova.

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Fonte: Varanasi. Le città letterarie, Vera Lazzaretti, Edizioni Unicopli, 2016.
Foto: Emiliano Allocco (Vedi altre foto di Emiliano)

Trieste, la Risiera di San Sabba

Quante vite può avere un luogo? Questa è la storia di un opificio edificato in origine per la lavorazione e la trasformazione del riso e trasformato, suo malgrado, prima in una caserma militare e poi in un campo nazista di detenzione e di polizia. Queste mura ospitano oggi un museo che vuole conservare la memoria di quel che è stato, restituire dignità a chi qui incontrò paura e morte e tramandare ai posteri la sua storia perché quel che fu non sia più.
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Nel febbraio del 1898 la locale società di Pilatura del riso del Litorale acquistò i terreni del rione di San Sabba, nella periferia di Trieste, per edificarvi un insieme di edifici destinati alla lavorazione del riso. L’opificio rimase in attività fino ai primi anni ‘30 e dopo il 1940 fu convertito in una caserma militare. In seguito all’occupazione del territorio da parte delle forze tedesche, l’ex opificio fu utilizzato prima come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 per essere poi trasformato nel Polizeihaftlager della Risiera di San Sabba, un campo di detenzione e di polizia. Dopo la fine della seconda guerra mondiale e fino al 1965, la Risiera divenne un campo di raccolta per i profughi in fuga dai paesi al di là della cortina di ferro. Il 15 aprile 1965 l’allora Presidente della Repubblica italiana Giuseppe Saragat dichiarò la Risiera di San Sabba monumento nazionale per la sua rilevanza storica e politica, consegnandola ai posteri e alla Storia come luogo della memoria legato alle vicende dell’occupazione nazista d’Italia.
La Risiera fu uno dei quattro Polizeihaftlager italiani insieme a FossoliBorgo San DalmazzoBolzano, ma fu l’unico dotato di un forno crematorio. La sua complessa realtà emerge dall’inchiesta giudiziaria svolta all’epoca del processo celebrato nel 1976. Nella sentenza che ne seguì si afferma che il Lager della Risiera di San Sabba fu per le vittime della persecuzione razziale quasi esclusivamente un campo di transito, mentre rappresentò un carcere o il braccio della morte per le vittime della persecuzione politica o per chi si macchiò di crimini di guerra. I nazisti lo usarono inoltre come centro per la predisposizione di azioni militari e di rastrellamento. Chi era destinato alla deportazione veniva trasportato per mezzo di autocarri telonati alla Stazione centrale di Trieste da dove partivano i treni diretti in Polonia o in Germania.

Quante persone
trovarono la morte nel Polizeihaftlager della Risiera
Le ricerche storiche non permettono ad oggi di fornire un dato preciso. In sede di processo (1976) si ipotizzarono “non meno di 2.000 vittime”, ma alcuni storici stimano tra i 4.000 e i 5.000 morti. Le esecuzioni avvenivano solitamente di notte. Le SS e i militari ucraini al loro soldo erano gli addetti alle soppressioni che avvenivano per impiccagione, fucilazione, gassazione o tramite colpi di mazza. E’ certo che qui furono massacrati circa 25 ebrei poiché considerati incapaci di affrontare il viaggio di deportazione.

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Il processo²
Il processo per i crimini commessi tra le mura della Risiera si svolse tra il 16 febbraio e il 28 aprile 1976 presso la Corte d’Assise di Trieste dopo un lunghissimo e travagliato iter giudiziario iniziato 30 anni prima. 174 testimoni, 2 imputati per omicidio plurimo pluriaggravato continuato: August Dietrich Allers e Josef Oberhauser. I reati di omicidio contro partigiani ed esponenti politici della Resistenza furono esclusi dai capi di imputazione perché motivati dalle leggi di guerra. Il 29 aprile 1976 Josef Oberhauser fu condannato all’ergastolo, ma non scontò la pena perché l’estradizione non fu autorizzata. August Dietrich Allers morì prima che il processo cominciasse. Fu tutto inutile? Probabilmente no, perché il processo permise di fare luce su quel che avvenne in questo Polizeihaftlager.

La Risiera di San Sabba oggi³

Il Museo della Resistenza della Risiera di San Sabba nasce dal progetto dell’architetto triestino Romano Boico (1910 – 1975): “Eliminati gli edifici in rovina ho perimetrato il contesto con mura cementizie alte undici metri, articolate in modo da configurare un ingresso inquietante. Il cortile cintato si identifica, nell’intenzione, quale una basilica a cielo libero. L’edificio dei prigionieri è completamente svuotato e le strutture lignee scarnite di quel tanto che è parso necessario. Inalterate le diciassette celle e quella della morte. Nel cortile un terribile percorso in acciaio, leggermente incassato: l’impronta del forno, del canale del fumo e della base del camino“.

Qualche informazione utile
Orario di visita: tutti i giorni dalle 9-17. Ingresso gratuito.
Dove: Via Giovanni Palatucci, 5 – Trieste.
T. +39 040 826202
risierasansabba@comune.trieste.it
Come arrivare: Go Green! Autobus 8 e 10
Per maggiori informazioni: https://risierasansabba.it

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Fonte: La Risiera di San Sabba, Edizioni Civici musei di storia ed arte, Comune di Trieste, 2016, ISBN 978-88-87377-62-0
Foto di Emiliano Allocco (clicca qui per vedere altre foto)

¹ La Risiera di San Sabba, Edizioni Civici musei di storia ed arte, Comune di Trieste, 2016, pag. 22
² La Risiera di San Sabba, Edizioni Civici musei di storia ed arte, Comune di Trieste, 2016, pag. 40
³ La Risiera di San Sabba, Edizioni Civici musei di storia ed arte, Comune di Trieste, 2016, pag. 41

A giro per Galle: alla scoperta del Fort e della sua eredità coloniale

La città di Galle e in particolare il suo Fort sono una meta irrinunciabile per chi viaggia nel sud dello Sri Lanka. Proclamata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 1988, è un’elegante città portuale sulla punta sud-occidentale dell’isola a circa 120 chilometri da Colombo, crocevia di genti e merci, testimonianza straordinaria dell’epoca coloniale che ha vissuto lo Sri Lanka. Il cuore della città è il Fort, una cittadella fortificata eretta dagli olandesi nel XVII secolo e circondata dal mare su tre lati. Passeggiando tra le sue vie, è possibile ammirare oltre 400 edifici storici tra case coloniali olandesi con il caratteristico colonnato antistante l’abitazione, chiese, moschee, templi, antichi edifici amministrativi, vecchi magazzini delle spezie e alberghi squisitamente restaurati. Vale la pena andare a giro per le strette stradine cittadine senza una meta precisa alla scoperta dei numerosi e raffinati caffè e delle tante botteghe che vendono merci di pregio di ogni genere. Sarà facile scovare qualcosa di insolito e originale da acquistare.
Secondo alcuni storici, Galle potrebbe essere stata Tarshish, la città dalla quale re Salomone ricevette in dono avorio, pavoni e preziosi gioielli. Una flotta portoghese, diretta alle Maldive, approdò qui nel 1505 ed espugnò la città. Si narra che i portoghesi l’abbiano chiamata così dopo aver sentito cantare un gallo. Più realisticamente il toponimo potrebbe derivare da “gala” che in singalese significa roccia. Nel 1640 i portoghesi dovettero cedere Galle agli olandesi, ai quali si deve la costruzione dell’imponente forte con i suoi tre bastioni a cui vennero dati i nomi di sole, luna, stella. Nel XVII secolo divenne il porto principale dello Sri Lanka e per quasi due secoli rimase un importante snodo commerciale per le navi che facevano la spola tra Europa e Asia. Quando la città passò in mano agli inglesi nel 1796, Colombo assunse un’importanza crescente come porto commerciale e Galle fu declassata a un ruolo di secondo piano. Più recentemente, la città ha riportato ingenti danni materiali e gravi perdite umane a causa dello tsunami del 26 dicembre 2004, provocato da un violento maremoto con epicentro al largo dell’Indonesia.
Il Fort si può girare tranquillamente a piedi o si può affittare una bicicletta se la calura non dà tregua.
Cosa fare a Fort:

  • Al calar del sole, quando il caldo finalmente scema, si può ammirare il tramonto passeggiando sui bastioni del forte. Si gode di un’incantevole vista sull’oceano da Flag Rock, l’antico bastione portoghese. È possibile compiere il giro di quasi tutto il perimetro della cittadella in circa un’ora partendo dalla torre dell’orologio. Poco prima del bastione “stella”, al di fuori delle mura, noterete una modesta tomba bianca dove riposano le spoglie mortali del santo musulmano Dathini Ziryam. Non mancate di ammirare nel tratto settentrionale delle mura la torre dell’orologio e il Main Gate, aggiunto dagli inglesi nel 1873 per facilitare la gestione del crescente traffico in entrata nella città vecchia. Al termine del lato orientale sorge un alto faro bianco ai piedi del quale si trova la Lighthouse Beach, una striscia di sabbia bianca dove ci si può fermare a riposare o a fare il bagno. Prima di addentrarvi tra le vie di Fort, visitate ancora l’Old Gate sopra il quale campeggia, splendidamente scolpito, lo stemma della Gran Bretagna e la scritta VOC (Verenidge Oostindische Compagnie ossia Compagnia Olandese delle Indie Orientali) con la data 1669;

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  • All’interno del Fort si trova la maggior parte degli edifici più antichi risalenti al periodo olandese. Meritano una visita la Dutch Reformed Church, con il suo pavimento ricoperto di lapidi provenienti da cimiteri olandesi e il suo organo, e la vicina All Saints Anglican Church in pietra, di architettura tipicamente inglese. Di fronte alle chiese si erge un campanile bianco del 1901 che dà l’allarme in caso di tsunami. Proseguendo per la vicina Queen Street vi imbatterete nella Dutch Governor’s House del 1683. L’edificio che ospitava il governatore è facilmente identificabile, poiché sopra l’ingresso principale sono scolpiti un gallo e l’anno di fondazione. Seguendo per Hospital Street ci si imbatte nel Dutch Hospital, un tempo ricovero di ammalati e appestati e ora trasformato in centro commerciale con eleganti caffè e boutique;

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  • Tra gli edifici di culto una menzione va alla Meehan Mosque, un’imponente moschea bianca che svetta a ovest del faro e combina stili architettonici differenti del barocco vittoriano e arabo e la dagoba buddhista Sudharmalaya Temple che ospita un grande Buddha sdraiato;

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  • Tra le molte costruzioni olandesi splendidamente restaurate che si incontrano a giro, ricordiamo l’Hotel Amangalla con il suo profondo porticato e il Fort Bazaar in Church Street 26, anche lui riconvertito in una struttura ricettiva. L’Amangalla in Church Street 10 fu costruito nel 1684 con la funzione di ospitare il governatore e i suoi funzionari. Successivamente venne trasformato nel New Oriental Hotel e divenne la sistemazione preferita dei passeggeri di prima classe dei transatlantici P&O nel XIX secolo. Dopo un periodo di declino nel XX secolo, è tornato ora ai suoi antichi fasti.

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La città nuova è vivace e frenetica. Prima di lasciare Galle concedetevi il tempo di una passeggiata nella trafficata Main Street. Raggiungete il Galle International Cricket Stadium che in passato era un ippodromo dove scommettevano gli inglesi mentre oggi ospita incontri di crickets di livello internazionale e il Dutch Market, un bel mercato alimentare che si tiene sotto un porticato vecchio di tre secoli.

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E tra le viuzze del Fort di Galle si conclude il nostro lungo giro in Sri Lanka. Mentre restituisco la bici per l’ultima volta e l’aria calda della sera mi accarezza la pelle bruciata dal sole, sento calare un velo di malinconia. Un respiro profondo ed ecco che la malinconia cede il posto a una profonda gratitudine. Grazie, a presto.

Foto di Emiliano Allocco (Clicca qui per vedere altre foto di Emiliano su Flickr)

Sri Lanka: il canto del mare e il profumo della cannella, benvenuti al sud

Benvenuti al Sud! La costa meridionale dello Sri Lanka è un rincorrersi di spiagge bianche a perdita d’occhio. Qui il sole è caldo, le onde si infrangono con fragore a riva, l’Oceano Indiano è caldo e cristallino, la frutta è generosa nella sua varietà e incredibilmente succosa, la gente cordiale. Un paradiso in terra insomma, dove riposare o in alternativa dedicarsi agli sport acquatici o alla corsa mattutina ai bordi dell’oceano.
E la natura, fragile e potente, ancora una volta è pronta ad accogliere e curare anima e corpo di chi è disposto a contemplarla e a viverla con il doveroso rispetto: madre accogliente e generosa, è un rimedio alle brutture quotidiane. È un richiamo forte alla dimensione collettiva della condizione umana. Il mare è lì per tutti ed è di tutti. C’era prima di noi e ci sarà dopo di noi. Ci ricorda che siamo di passaggio e ci consola con la sua bellezza. Ristabilisce equilibri e priorità. Quanto mi manca il mare e vivere la natura quotidianamente quando sono a casa, indaffarata a correre dietro scadenze, lavoro e faccende varie.
Qui, più che altrove, è un dovere essere pellegrini rispettosi e amanti dei posti che si visitano, viandanti che non lasciano traccia del loro passaggio, rispettosi dei luoghi, dei loro abitanti e della bellezza che incontrano. L’unico segno indelebile che i pellegrini portano a casa è invisibile e interiore, una traccia di pace e crescita.

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Noi abbiamo fatto base a Mirissa e per qualche giorno abbiamo respirato a pieni polmoni il blu dell’oceano. Se per caso il canto del mare dovesse venirvi a noia, potete pianificare un’escursione in una vicina piantagione di cannella. La nostra scelta è ricaduta sulla tenuta Mirissa Hills, una meravigliosa piantagione di 24 ettari adagiata sulle colline di Mirissa. È possibile prenotare un tour con pranzo incluso che sarà consumato sulla terrazza dell’hotel. Si potrà inoltre visitare liberamente l’interessante galleria d’arte moderna della villa. A fine pasto vi verrà servito un delizioso gelato alla cannella!
Durante la visita alla piantagione si apprenderanno i metodi di coltivazione, raccolta e lavorazione di questa antica spezia. Furono gli olandesi a introdurre nel 1600 la cannella in Europa, iniziando un commercio stabile con lo Sri Lanka e diventandone i principali importatori.
Sarà possibile camminare tra gli arbusti che possono vivere oltre 40 anni e osservare gli operai specializzati che raccolgono a mano la corteccia utilizzando un coltello e un tubo cilindrico in ottone. La cannella è il primo strato, immediatamente sotto il sughero, dei rami della pianta. I rami, una volta privati della parte esterna, vengono impiegati come legno da ardere o da costruzione.
L’albero della cannella è un sempreverde che può raggiungere i 10–15 metri di altezza. Le sue foglie hanno una forma ovale allungata e misurano fino a 20 centimetri di lunghezza. I fiori sono bianchi e riuniti in infiorescenze. La cannella viene raccolta una volta l’anno quando i rami più maturi vengono recisi alla base. E’ importante non rimuovere tutti i rami per non far morire la pianta. Le piantine più giovani non vengono potate per i primi 5 anni di vita. A Mirissa Hills la raccolta comincia ad agosto e dura tre mesi.

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La corteccia di cannella viene confezionata in tubicini lungo 50 centimetri o un metro e lasciata essiccare per almeno 5 giorni, dopodiché è pronta per essere esportata principalmente nei paesi arabi e in Europa. Questa spezia è usata in cucina, sia per preparare piatti dolci che per pietanze salate (curry, carni stufate, riso byriani) o per profumare il tè. Viene impiegata anche nella cosmesi per la produzione di profumi, dentifrici, saponi. Dalle foglie dell’arbusto si ricava un olio adatto per i massaggi. La cannella sarebbe inoltre un potente alleato contro colesterolo, diabete e pressione alta.

Foto di Emiliano Allocco (Clicca qui per vedere altre foto di Emiliano su Flickr)
 

Wellawaya, l’enigmatico Buddha scolpito nella roccia e le cascate di Diyaluma

A tre quarti d’ora di bus da Ella sorge la piccola cittadina di Wellawaya, una città-crocevia per i trasporti, senza particolari attrattive da offrire ai viaggiatori. Wellawaya è circondata da aride pianure che appartenevano all’antico regno di Ruhunu ed è un’ottima base per visitare il vicino sito di Buduruwagala e le belle cascate di Diyaluma. Fermatevi una notte, non di più.
A circa 5 chilometri dalla città, percorrendo una panoramica strada che costeggia un lago e meravigliosi paesaggi bucolici si raggiungono le sculture rupestri di Buduruwagala. Il nome significa “roccia delle sculture buddiste” e deriva dall’unione delle parole Budu (Buddha), Ruwa (immagini) e Gala (pietra). La storia del sito e delle sue origini rimane avvolta nel mistero, donando al luogo un’aura di suggestione e fascino. Si crede che questa roccia, sapientemente scolpita e nascosta nella giungla, fosse un tempio buddhista della corrente Mahayana, abitato da monaci eremiti oltre mille anni fa.

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All’improvviso tra la fitta vegetazione della giungla vi apparirà un’alta parete rocciosa, sulla quale sono scolpite 7 figure. Il gigantesco Buddha in piedi, al centro, è il più alto dell’isola e raggiunge i 15 metri. Osservandolo con attenzione, si noterà che conserva parte dell’originale stucco bianco che formava la sua veste. Una lunga striscia arancione ci fa supporre che originariamente la statua fosse dipinta a tinte vivaci. Alla destra del Buddha sorge un blocco di tre figure. Quella centrale, di bianco dipinta, si crede raffiguri Avalokitesvara, il bodhisattva della compassione. La figura femminile alla sua sinistra dovrebbe essere la sua consorte Tara. Secondo una leggenda locale, la terza statua rappresenterebbe il principe Sudhana.
Delle tre figure alla sinistra di Buddha, quella centrale indossa una vistosa corona e si pensa sia Maitreya, il Buddha del futuro, successore di Siddhartha, il Buddha Gautama secondo la cui profezia, Maitreya sarà il Buddha della compassione e delle benevolenza, un condottiero di uomini che governerà sul mondo conosciuto e sul cosmo. Sarà l’ultimo Buddha a comparire sulla terra, otterrà l’illuminazione completa, insegnerà il Dharma e i suoi discepoli saranno dieci volte più numerosi di quelli del Buddha Gautama.
Alla sinistra di Maitreya compare Vajrapani che regge tra le mani un vajra, una clessidra simbolo del fulmine. Alcuni dubbi persistono sull’identità della terza figura che potrebbe rappresentare Vishnu Sahampath Brahma. Alcune statue sono ritratte con la mano destra sollevata con due dita ripiegate verso il palmo, quasi a voler richiamare i visitatori. Il sito è ombreggiato, immerso in un silenzio totale e meta di pochi turisti. Potete fermarvi qui a meditare o a godere della pace del luogo.

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Nei dintorni di Wellawaya, meritano una visita le cascate di Diyaluma, le terze per altezza dello Sri Lanka. Con un salto di 171 metri, si tuffano dalla scarpata del Koslanda Plateau e formano un piccolo lago nel quale è possibile bagnarsi. Il sito sorge a 13 chilometri a ovest dalla città.
Sulla Ella-Wellawaya Road incontrerete anche le piccole ma incantevoli cascate conosciute come Ella Wala Falls. Fermatevi qui per un bagno in (quasi) completa solitudine, immersi nella natura e in fresche acque non molto profonde. Per raggiungerle costeggerete un’alta diga sulla quale ci si può arrampicare per godere di una bella vista sul paesaggio circostante.

Foto di Emiliano Allocco (Per vedere altre foto di Emiliano su Flickr, clicca qui)

Trekking nel parco nazionale di Horton Plains

Il Parco Nazionale di Horton Plains è un’area protetta nella regione della Hill Country, nel cuore dello Sri Lanka. Questo plateau è un altopiano ondulato situato a un altitudine compresa tra i 2.100 e i 2.300 metri s.l.m. All’orizzonte si scorgono il Kirigalpotta (2.395 mt) e il Totapola (2.357 mt), rispettivamente la seconda e la terza cima dell’isola per altitudine.
Ricoperte da vaste praterie intervallate a tratti da fitta foresta pluviale, formazioni rocciose, cascate e laghi, le Horton Plains si estendono su un’area di oltre 31 kmq.  Vantano una ricchezza di flora e fauna pressoché unica e sono l’habitat naturale di alcune specie animali e vegetali endemiche del posto. Le aree pianeggianti sono caratterizzate da grandi cespugli di trebbia dello Sri Lanka, mentre le zone paludose sono ricoperte da spessi strati di muschio. Numerosissimi sono i calofilli, alberi con una caratteristica chioma ad ombrello e fiori bianchi, e i rododendri arborei con i loro fiori di un rosso sanguigno.
La diversità di paesaggio va a braccetto con una ricca varietà faunistica. Nel parco vivono leopardi, cervi sambar e cinghiali, difficili però da avvistare di giorno. L’area è frequentata da molti appassionati di birdwatching poiché è possibile avvistare diverse specie endemiche.

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Questo parco è stato dichiarato area protetta nel 1988 ed è uno dei pochi parchi nazionali dello Sri Lanka dove i visitatori possono girare senza una guida, seguendo tuttavia percorsi tracciati obbligatori dai quali è vietato allontanarsi. Accedendo dal Visitor Center, si passa attraverso un severo controllo dei propri averi. Tutte le borse e gli zaini saranno aperti e ispezionati con cura e la plastica buttata via e sostituita, dove possibile, con involucri in carta. Gli oggetti considerati incompatibili con la visita del parco saranno trattenuti all’ingresso e restituiti solo all’uscita.
Immediatamente oltrepassato il visitor center, parte un circuito ad anello di 9.5 chilometri che attraversa parte dell’altopiano. Ci vorranno circa 3 ore per completare il trekking. Le Horton Plains terminano bruscamente all’altezza del World’s End, un’incredibile scarpata (senza barriere di protezione!) che si apre su un dirupo di 880 metri. La vista sulla vallata è incredibile, ma è necessario arrivare qui prima delle 9 di mattina. Se tarderete, avrete ottime probabilità di contemplare solo un muro grigio di nebbia. Il tempo cambia in fretta e nubi e foschia possono palesarsi all’improvviso. Il circuito prosegue fino alle Baker’s Falls per ricondurvi poi all’ingresso.
Questo sito è di una bellezza mozzafiato e permetterà ai viandanti di immergersi nella natura ancora incontaminata e di goderne appieno. La serenità risiede nelle piccole cose, si nutre di silenzio ed è più facile da incontrare in mezzo a praterie e foreste. La natura è una cura per l’anima e un ottimo riequlibratore di priorità ed energie. Così impermanente, eterna, senza confini, di nessuno eppure di tutti, ci ricorda della nostra temporaneità, mentre parla di eternità alla nostra anima. Qui più che altrove è un dovere essere pellegrini, amanti rispettosi del luogo che non lasciano traccia del loro passaggio. Le Horton Plains lasceranno invece una traccia di serena felicità in chi le visita.

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Alcune informazioni pratiche: le Horton Plains sono visitabili con una gita di un giorno se fate base a Ohiya (ca 10 chilometri), Nuwara Eliya (ca 30 chilometri) o Ella (ca 50 chilometri). Il mezzo di trasporto più comodo ed economico è il tuk tuk. Contrattate la tariffa in anticipo.

Foto di Emiliano Allocco (Clicca qui e vedi altre foto di Emiliano su Flickr) 

A Kandy, storia e leggenda della sacra reliquia del dente di Buddha

La leggenda narra che, quando Buddha morì in India nel 483 a.C., i suoi discepoli riuscirono a strappare dalla sua pira funeraria un dente. Dopo alterne vicende, la sacra reliquia fu introdotta in Sri Lanka, nascosta tra i capelli di una principessa. Inizialmente il dente fu conservato ad Anuradhapura, l’antica capitale singalese, per essere trasferito poi da un luogo all’altro a seconda delle vicende storiche del paese, per giungere infine a Kandy, dove tutt’ora è conservato. Nel 1.283 d.C. fu riportato in India da un esercito invasore, ma fece ritorno in Sri Lanka per merito di re Parakramabahu III. Ben presto il sacro dente si guadagnò la fama di essere un “creatore di re”, chiunque ne fosse entrato in possesso era predestinato a governare l’isola. La custodia della reliquia assunse quindi un’importanza crescente come simbolo di sovranità. Nel XVI secolo i portoghesi si impadronirono di quello che credevano essere il dente di Buddha e con cattolico fervore lo bruciarono a Goa. In realtà furono ingannati dai singalesi e distrussero una copia della reliquia. Gli inglesi, al contrario, si rivelarono sorprendentemente rispettosi nei confronti della dente.
Tra il XVII e il XVIII secolo, i sovrani di Kandy fecero erigere un Tempio, che originariamente faceva parte del complesso del palazzo reale, per custodire il sacro dente. La reliquia è oggi conservata in un sacrario a due piani, noto con il nome di Vahanhitina Maligawa. La costruzione occupa il centro di un cortile lastricato ed è facilmente individuabile grazie a un vistoso tetto dorato.
Il Tempio del Sacro Dente riveste un’enorme importanza tra i buddhisti dello Sri Lanka che credono che vada visitato almeno una volta nella vita per acquisire meriti spirituali e migliorare il proprio karma. Il sito è quindi meta di pellegrinaggi costanti. Ogni anno, durante la poya (plenilunio) tra i mesi di luglio e agosto, si celebra a Kandy la Esala Perahera, una grande festa che commemora l’arrivo del dente in Sri Lanka. La sacra reliquia viene portata in processione tra le vie della città da un corteo di elefanti, riccamente bardati. L’elefante più grande trasporta un baldacchino, dove viene posta una copia del dente.

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Se capitate a Kandy, considerata la capitale culturale dell’isola, una visita al Tempio del Sacro Dente è d’obbligo.
La città, adagiata sulle sponde di un bel lago circondato da colline verdeggianti, vi apparirà caotica e trafficata, incredibilmente moderna e affollata di negozi alla moda, centri commerciali e rivendite all’ingrosso di chincaglierie piuttosto inutili. Qui più che altrove ho notato senzatetto e mendicanti che vivono per le strade cittadine. Questo sembra essere un effetto collaterale inevitabile del progresso. Là dove il benessere è maggiore, pare crescere in proporzione il numero degli esclusi e degli emarginati che non beneficiano di questa maggior ricchezza.

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Poco distante dal tempio sorge il Kandy Garrison Cemetery, il piccolo e malinconico cimitero della guarnigione inglese, molto ben curato, dove sono ospitate 163 tombe risalenti all’epoca coloniale. Merita una visita. Vi stupirà la giovane età in cui morirono molte delle persone qui sepolte. In pochi superavano i 40 anni. Le principali cause dei decessi erano da ricondurre a malattie, colpi di calore o attacchi di elefanti.

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Non molto distante svetta la St Paul’s Church, una bella chiesa coloniale in mattoni rossi. L’edificio in stile gotico era utilizzato dalla guarnigione inglese, di stanza nei pressi.

Foto di Emiliano Allocco (Vedi altre foto di Emiliano su Flickr) 

La costa orientale dello Sri Lanka: Trincomalee e Batticaloa, dove i pesci cantano nelle notti di luna piena

Se vi capiterà di passare da Batticaloa, potrete forse avere il piacere di udire i pesci cantare. Secondo la tradizione, questo raro fenomeno è più frequente tra Aprile e Settembre e si manifesta principalmente nelle notti di luna piena. Il modo migliore per ascoltare il canto dei pesci è affittare una piccola barca e, dal ponte di Kallady, dirigersi verso il centro della laguna. Avvicinando un orecchio all’estremità di un remo immerso nelle acque, si dovrebbe distintamente sentire una dolce e misteriosa melodia simile alle note prodotte da una corda di chitarra o da un violino. C’è chi al contrario sostiene che questa melodia sia un insieme indistinto di suoni che ricorda il rumore prodotto da un dito bagnato che accarezza i bordi di un calice di vino. Se sarete tra i fortunati a cui il destino concederà l’onore di ascoltare i pesci cantare a Batticaloa potrete confermarcelo. Un sacerdote, padre Lang, negli anni 1960 riuscì a registrare questo suono e l’audio venne poi trasmesso dalla radio nazionale, la Sri Lanka Broadcasting Corporation (SLBC), già Radio Ceylon, l’emittente radiofonica più antica di tutta l’Asia meridionale, fondata a Colombo nel 1925. Esistono diverse specie di pesci in grado di emettere suoni, ma al momento nessuno è ancora riuscito ad identificare quali pesci cantino nella laguna di Batticaloa.
Se il destino non vi concederà di godere di un concerto marino, non perdetevi d’animo! La vostra gita a Batti non sarà stata comunque vana. Il nome della cittadina deriva dalla lingua tamil e significa città dei tamarindi, in quest’area i tamarindi crescono infatti generosi. Dirigetevi verso il quartiere Puliyanthivu, cuore pulsante della vecchia Batti dove potrete visitare il forte risalente all’epocale coloniale, ora in parte in rovina, e diverse chiese come la Methodist Church, il St Michael’s College e la St Mary’s Cathedral, dipinta di un vivace turchese. Tra i molti templi Hindu cittadini, l’Anipandi Sitivigniswara Alayar merita una visita. Attraversando la laguna a nord di Puliyanthidu, si incontra la città nuova, area di commerci e nuovi affari. Qui sorge una minuscola moschea, la Auliya Mosque, con un bizzarro minareto verde smeraldo da dove si gode di una bella vista sul forte e sulla laguna.

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A est di Batti si trova la meravigliosa Kallady, raggiungibile attraverso un ponte eretto nel 1924. La lunga penisola nota come Kallady and Navalady Peninsula Beach è completamente orlata da una spiaggia dorata che si estende da nord a sud. Lo tsunami del 2004 ha causato qui ingenti danni e numerose vittime. Questo itsmo sabbioso è di una bellezza incredibile. Sedetevi sulla sabbia e godete del canto dell’oceano. Consolatevi così dal dispiacere di non aver potuto godere della melodia dei pesci canterini.

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La cittadina di Trincomalee, a nord di Batticaloa, è affacciata su uno dei porti naturali più belli del mondo, secondo la guida Lonely Planet. Personalmente, non ho ancora avuto il piacere di visitare tutte le città marine del mondo e non posso quindi confermare questa decisa presa di posizione, ma con forza posso affermare che Trinco, le sue acque cristalline e le ampie spiagge dorate vi lasceranno senza parole.
Le spiagge più note si trovano nelle vicine località di Uppuveli Nilaveli, in città si trova invece la suggestiva Dutch Bay. Dal tempio Hindu di Kandasamy Kovil, costruito su uno spuntone di roccia, si gode di un’ampia vista sul mare e sulla città. Questo tempio è uno dei cinque pancha ishwaram dello Sri Lanka dedicati al culto di Shiva e destinati ad ingraziarsi la protezione del dio dall’abbattersi di calamità naturali sull’isola. E’ meta di numerosi pellegrinaggi. Qua si svolgono cacofoniche puja, offerte e preghiere, in diversi orari tutti i giorni. Poco distante sorge il Fort Frederik, un’imponente struttura difensiva eretta dai portoghesi, espugnata poi dagli olandesi e caduta infine in mano inglese nel 1782.

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Rallentate il ritmo del vostro viaggio e godete delle bellezze naturali di Trincomalee. Passeggiate sulle spiagge e tra le piccole botteghe che vendono il pesce essiccato. Vi sarà facile imbattervi in un cervo pomellato che gira libero!

Foto di Emilitano Allocco (Visita la pagina Flickr di Emiliano per visionare altre foto)