E’ giugno, sono in ferie e credo di non essere felice. E’ possibile? Proprio io, che pontifico sempre sul valore del tempo libero da impegni e doveri, quello che si può finalmente trascorrere a giro per imparare vedere fare, non so godere appieno di un’occasione così? Ho aspettato questa settimana a lungo. Sono in Polonia. E’ mattino presto, la città dorme ancora. Nella quiete assoluta che precede l’alba, guardo fuori dalla finestra, una pioggia leggera cade sul tetto e aggiunge malinconia.
Forse ho nostalgia dell’Asia. Vorrei essere lontana, ancora più distante dalla mia routine. Vorrei imparare di più. Da sempre ho fame di mondo, di altro, di spiritualità, di andare a vedere. Ho sempre avuto l’ansia del tempo che passa, la paura di non vivere a sufficienza, di non riuscire a leggere tutti i libri che vorrei, di non imparare abbastanza. E forse sono stanca.
Credo di aver portato con me le preoccupazioni quotidiane legate al ruolo che temporaneamente ricopro nel mio piccolo mondo. Non ho staccato la spina. Non sono riuscita a diventare “nessuno”, a farmi anam, per essere quindi pronta a diventare chiunque e lasciarmi impregnare di mondo. Ho forse investito il poco tempo che mi è concesso in una vacanza e non in un viaggio?
Preparo una tazza di tè. Lascio scivolare via gli ultimi pensieri. Tra le pieghe della memoria scovo una frase, letta tempo addietro, tra le pagine di Un indovino mi disse di Tiziano Terzani: “Ogni posto è una miniera. Basta lasciarcisi andare, darsi tempo, stare seduti in una casa da tè ad osservare la gente che passa, mettersi in un angolo del mercato, andare a farsi i capelli e poi seguire il bandolo di una matassa che può cominciare con una parola, con un incontro, con l’amico di un amico di una persona che si è appena incontrata e il posto più scialbo, più insignificante della terra diventa uno specchio del mondo, una finestra sulla vita, un teatro di umanità dinanzi al quale ci si potrebbe fermare senza più il bisogno di andare altrove. La miniera è esattamente là dove si è: basta scavare”.
Mi vesto, scaccio la malinconia, infilo le scarpe ed esco. Vado a inseguire il bandolo della matassa. La pioggia ha lasciato il posto a un pallido sole, probabilmente sarà una bella giornata.
E Danzica è una meraviglia. Trascorro un giorno a giro tra la Città Principale e la Città Vecchia. Apprendo la sua travagliata storia, rivivo i fasti di una città portuale e mercantile, scopro le tracce lasciate dalla seconda guerra mondiale (che prese avvio proprio da qui quando la nave militare tedesca Schleswig-Holstein sparò alcuni colpi di cannone contro la postazione militare polacca di Westerplatte) e dal regime comunista. Leggo della Lega Anseatica e percorro il lungofiume costeggiato da una banchina decisamente animata dove si rincorrono locali e botteghe. Mi perdo tra i negozi di artigianato e di ambra, l’oro del Nord. Non resisto e faccio un paio di acquisti.
Splendide le costruzioni che si affacciano sulla Via Reale e il Mercato Lungo, fedelmente restaurate al termine del secondo conflitto mondiale. Un lavoro certosino che terminò solo negli anni ’90.
Entro in tutte le chiese, con buona pace di mio marito. A pochi passi da dove alloggiamo sorge la Chiesa di Santa Maria, la più grande chiesa in mattoni del mondo. Mi avventuro su per i 218 gradini che conducono sulla torre del Museo Storico allestito all’interno del municipio e godo di una vista a perdifiato sulla città. Scopro che a Danzica sorgeva un mulino in mattoni rossi, il materiale tipico dell’edilizia della Polonia settentrionale, che in epoca medievale era il più grande d’Europa. Contava 18 macine e produceva quotidianamente 200 tonnellate di farina. E’ rimasto in funzione fino al 1945. Ma questo non è il solo primato della città. Lungo il fiume si scorge la Gru di Danzica (Zuraw) che venne costruita nel XV secolo ed era impiegata a caricare e scaricare le mercanzie dalle imbarcazioni. Era il più grande macchinario del genere ai tempi e sollevava pesi fino a 2 tonnellate. Veniva azionata interamente da uomini.
Dopo un buon pranzo, raggiungo a piedi l’area dei Cantieri Navali. Qui prese corpo il malcontento contro il regime comunista che sfociò in una serie di scioperi, brutalmente soffocati dall’esercito sovietico nel 1970. Ai caduti è dedicato un monumento, tre croci d’acciaio alte 42 metri che recano bassorilievi sulla base raffiguranti scene degli scioperi. Il monumento fu inaugurato nel 1980 quando il regime era ancora al potere. Qui sorge anche il Centro Europeo di Solidarnosc dove è possibile ripercorrere la storia del sindacato autonomo dei lavoratori, del suo leader Lech Walesa e del crollo del regime.
Oggi ho trovato la mia “miniera”. Sono pronta per fare di questi giorni un viaggio. Domani sarà la volta di scoprire Varsavia.
(Ph Emiliano Allocco)