Villaggio operaio di Crespi d’Adda, la storia straordinaria di un esperimento sociale e imprenditoriale

“Grave è la questione degli infortuni in Italia, specialmente nella filatura del cotone; e quando gli imprenditori di una grande industria avranno applicato tutti i mezzi suaccennati per prevenire e attutire gli effetti degli infortuni, avranno compiuto un sacrosanto dovere, ma saranno ancora ben lungi dall’aver riconosciuto e soddisfatto a tutte le responsabilità che loro spettano. L’uomo, creatura essenzialmente libera, amante d’aria e di luce e bisognosa di svilupparsi al sole nel salutare travaglio della sua genitrice, la terra, è costretto invece dalla civiltà ad accomunarsi con altri suoi simili, fino a diventare un semplice organo di una macchina enorme, a servire soltanto come un ingranaggio. La grande industria è dunque contraria alla natura umana, al suo sviluppo fisico. La responsabilità di quegli imprenditori è dunque incalcolabile, come immensa la latitudine del loro dovere, il quale consiste nel conciliare le necessità dell’industria colle esigenze della natura umana, in modo che i progressi dell’una non siano mai per inceppare lo sviluppo dell’altra. […] Ultimata la giornata di lavoro, l’operaio deve rientrare con piacere sotto il suo tetto: curi dunque l’imprenditore che egli vi si trovi comodo, tranquillo ed in pace; adoperi ogni mezzo per far germogliare nel cuore di lui l’affezione, l’amore alla casa. Chi ama la propria casa ama anche la famiglia e la patria, e non sarà mai la vittima del vizio e della neghittosità. I più bei momenti della giornata per l’industriale previdente sono quelli in cui vede i robusti bambini dei suoi operai scorrazzare per fioriti giardini, correndo incontro ai padri che tornano contenti dal lavoro; sono quelli in cui vede l’operaio svagarsi ed ornare il campicello o la casa linda e ordinata; sono quelli in cui scopre un idillio o un quadro di domestica felicità; in cui fra l’occhio del padrone e quello del dipendente, scorre un raggio di simpatia, di fratellanza schietta e sincera. Allora svaniscono le preoccupazioni di assurde lotte di classe e il cuore si apre ad ideali sempre più alti di pace e d’amore universale.” Così scriveva nel 1894 Silvio Benigno Crespi nella sua opera giovanile “Dei mezzi per prevenire gli infortuni e garantire la vita e la salute degli operai nell’Industria del cotone in Italia”.
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Imprenditore, cofondatore e presidente dell’Associazione Cotoniera, deputato e senatore nelle file dei liberali cattolici, teorizzatore e appassionato propugnatore di un’idea sociale del fare impresa, Silvio era il figlio primogenito di Cristoforo Benigno Crespi. Si laureò in giurisprudenza all’Università degli Studi di Pavia ad appena 21 anni, si recò in seguito in Francia, Germania ed Inghilterra per seguire gli sviluppi dell’industria cotoniera. Collaborò prima e successe poi al padre nella conduzione del cotonificio di Crespi d’Adda che ampliò insieme al villaggio operaio.
Crespi d’Adda si trova alla confluenza dei fiumi Adda e Brembo, in territorio bergamasco. E fu qui, in quest’area dedita all’agricoltura di mera sussistenza ed economicamente depressa, che nel 1878 Cristoforo Benigno Crespi impiantò la filatura del cotone. I 5.000 fusi iniziali ben presto raddoppiarono e in poco tempo divennero 80.000. Si aggiunsero i reparti di tessitura e tintoria, rispettivamente nel 1894 e nel 1898. Il cotonificio raggiunse dimensioni enormi e arrivò a dare lavoro a 4.000 persone. Nel 1904 Cristoforo Crespi fece costruire anche la centrale idroelettrica di Trezzo d’Adda, oggi nota come Taccani. In parallelo sorse il villaggio, una vera e propria cittadina costruita dal nulla dai Crespi per i loro dipendenti e per le famiglie di questi. I lavoratori avevano a disposizione una casa con orto e giardino e tutti i servizi necessari: un lavatoio per evitare la fatica di recarsi al fiume con ceste pesanti, una chiesa, un dopolavoro, un complesso sportivo, mense, scuole gratuite, un ospedale di primo soccorso e un cimitero. In questo piccolo mondo perfetto, il padrone regnava dal suo castello e provvedeva ai bisogni dei suoi dipendenti come un buon padre di famiglia, dentro e fuori la fabbrica, dalla culla alla tomba, anticipando le tutele sociali dello Stato e colmando i suoi ritardi nella legislazione in materia. Dopo le tre case plurifamigliari degli inizi, attorno all’opificio sorsero numerose casette operaie bifamigliari e, dopo la Prima Guerra Mondiale, villette per impiegati e dirigenti. I criteri che mossero progettisti e architetti furono improntati a geometria, razionalità, funzionalità e… bellezza! L’intero villaggio gioca sul binomio funzionalità e arte, perché anche e soprattutto in un contesto produttivo la bellezza è imprescindibile dalla vita umana e contribuisce a dare un senso all’esistenza, elevandola ai massimi termini. L’armonia d’insieme appare ancora più sorprendente se si considera che l’intero complesso venne realizzato in anni diversi e la fase di sviluppo durò complessivamente quasi cinquant’anni. Particolarmente interessante è la chiesa di Crespi, copia perfetta di quella di Busto Arsizio, edificio di scuola bramantesca. I Crespi vollero omaggiare con questo gesto d’affetto il loro paese d’origine e la cultura italiana. Il 5 dicembre 1995, l’UNESCO ha inserito Crespi d’Adda tra i siti patrimonio mondiale della cultura (World Heritage List) in quanto “esempio eccezionale del fenomeno dei villaggi operai, il più completo e meglio conservato del Sud Europa”.

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Alcune curiosità su Crespi d’Adda:
–  Crespi d’Adda fu il primo villaggio in Italia ad essere dotato di illuminazione pubblica con il sistema moderno Edison;
–  Nella scuola di Crespi, riservata ai figli dei dipendenti, tutto era pagato dalla fabbrica, dalla cancelleria ai libri di testo, allo stipendio degli insegnanti;
– A inizio Novecento, venne costruita una piscina coperta gratuita con docce, spogliatoi e acqua calda;
– Crespi, seppure situata in provincia di Bergamo, ha il prefisso telefonico di Milano poiché i Crespi fecero installare una linea telefonica privata a lunga distanza che collegava il loro castello con la residenza di Milano;
– Silvio Benigno Crespi rappresentò l’Italia ai trattati di Versailles dopo la Prima Guerra Mondiale;
–  Silvio Benigno Crespi, appassionato d’auto, promosse negli anni Venti la costruzione delle prime autostrade d’Italia e dell’autodromo di Monza;
–  I Crespi erano appassionati d’arte e tra le opere della loro collezione privata, ora ospitata in vari musei del mondo, c’era La Schiavona di Tiziano.
Il cotonificio non non resse l’urto della Grande Depressione. Nel 1930 i Crespi dovettero rimettere tutto nelle mani della creditrice Banca Commerciale Italiana. La fabbrica rimase in funzione, con fortune alterne e diversi proprietari, fino al 2003 senza cambiare mai il settore di produzione, il tessile cotoniero. Oggi il villaggio è abitato da una numerosa comunità di discendenti degli operai che qui vissero e lavorarono ed è possibile visitarlo.
Per maggiori informazioni e per organizzare la vostra visita:
http://www.villaggiocrespi.it/
Dove: Piazzale Vittorio Veneto 1, Crespi d’Adda. Il Villaggio Crespi d’Adda si trova lungo l’autostrada Milano – Bergamo (uscita Capriate)

Foto di Emiliano Allocco (clicca qui per vedere altre foto di Emiliano su Flickr)

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Varanasi, sospesa tra terra e cielo

Varanasi è adagiata sulla sponda occidentale del fiume Gange e qui si estende per chilometri. Dalla riva del Gange i viaggiatori devono arrampicarsi su ripide scalinate, i ghat, per raggiungere un labirinto di vicoli, angusti e bui, che formano il cuore antico della città. Il lato opposto del fiume è una lunga spiaggia di sabbia bianca, spoglia, non edificata. Il sole del mattino svela un lungofiume di palazzi storici decadenti e costruzioni fatiscenti, illumina alberi le cui radici spezzano il terreno, scalinate irregolari e un’umanità colorata, già operosa. Le viscere della città sembrano inghiottire i viandanti: si dipanano in un dedalo di vie minuscole, gali, dal selciato irregolare, troppo strette per permettere il passaggio di automobili, dove le immondizie sono abbandonate a terra, le vacche bivaccano ad intralciare la via e poi il buio, i negozi, i vivi che camminano veloci, i morti che vagano, gli dei che abitano nelle nicchie votive. Se vi sentite persi, alzate gli occhi e controllate che sopra di voi, oltre i grovigli di fili elettrici su cui saltano le scimmie, ci sia ancora il cielo. Varanasi è sporca, ladra, bugiarda, maleodorante, difficile, chiassosa, eppure non può lasciare indifferenti. Se non suscita in voi un immediato e forse giustifato sentimento di repulsione, è molto probabile che vi affascinerà e che diventi uno dei vostri luoghi del cuore.
Varanasi è tra i centri abitati più antichi del mondo. I primi insediamenti risalgano al 1200 a.C. Nel tempo ha avuto molti nomi: è stata Kashi la luminosaAnandavana la foresta di beatitudiniAvimukta la mai abbandonataBenares o Banares al tempo del colonialismo inglese e oggi Varanasi, che forse indica la sua collocazione geografica sul fiume Gange delimitato dai suoi due affluenti, il fiume Varana a nord e a sud il rigagnolo Assi. Nell’immaginario collettivo è il luogo dell’altrove, dove risiede Shiva e dove vita e morte coabitano. E’ uno dei siti più sacri dell’India per gli Hindu, dimora di asceti che percorrono vie estreme di rinuncia e meta costante di pellegrini che qui compiono rituali antichi e fanno generose donazioni alle istituzioni religiose nella speranza di ottenere meriti spirituali per una rinascita migliore nella prossima vita. Gli Hindu scendono i ghat per andare a lavare i peccati terreni nelle acque di Ganga o per cremare i loro cari.
Abitata dai bhut, spiriti dannati che vagano alla ricerca di un po’ di pace e che interagiscono spesso in modo molesto con i vivi, Varanasi è il luogo dove mondi diversi si incontrano: vivi, morti, antenati, guardiani, dei, spiriti camminano tra le sue strade. Dopo la cremazione gli spiriti dei morti attraversano una fase intermedia prima di entrare nel mondo degli antenati: in questo periodo vagano e possono rimanere attaccati ai vivi, se i riti funebri non sono stati eseguiti secondo tradizione. Chi invece ha sperimentato una morte prematura o violenta rimane impigliato in una dimensione di mezzo e non riesce a trovare pace. Questi spiriti spesso sfogano rabbia, insoddisfazione, ora gelosia contro i vivi che devono propiziarseli attraverso offerte per tentare di pacificarli. E così donne morte prematuramente o immolate sulla pira funeraria del marito, morti ammazzati, eroi locali diventano, se pacificati, custodi dell’area dove hanno vissuto, vegliando infine sui vivi. Li troverete in piccoli santuari ai crocicchi delle strade. Fateci caso.
La vita spirituale di Varanasi ruota intorno ai suoi 80 ghat, la maggior parte dei quali è usata per scendere sulla riva del Gange e bagnarsi, ma ci sono anche diversi ghat funerari dove i cadaveri vengono cremati in pubblico. Il principale è quello di Manikarnika. Il momento migliore per visitare i ghat è l’alba: si potrà osservare una bella mescolanza di genti che va al Gange per il bagno rituale, per fare yoga insieme, per lavare i vestiti, per acquistare fiori o fare il bagno ai bufali, per farsi fare un massaggio o giocare a cricket o ancora per fare l’elemosina ai mendicanti per far progredire il proprio karma. Un’escursione in barca lungo il fiume è il modo migliore per approcciarsi alla città.
Il Manikarnika ghat è il luogo più propizio dove ogni buon Hindu vorrebbe essere cremato. I cadaveri vengono presi in custodia da un gruppo di domintoccabili, e portati in processione su una barella di bambù ricoperta da un sudario tra le vie della città, fino alle sacre acque di Ganga. I corpi vengono immersi nelle acque del fiume e poi portati alla cima del ghat, impilati in cataste di legna da ardere e cremati. Ogni tipo di legno ha un costo diverso, quello più pregiato è il sandalo. Saper utilizzare la giusta quantità di legna per cremare i corpi è considerata una vera e propria arte. Si può assistere alla cremazione, ma è vietato scattare fotografie. Verrete probabilmente avvicinati da un sacerdote che si offrirà di condurvi in un posto migliore da cui assistere alle cremazione. Non seguitelo, se non siete disposti a lasciare una mancia. L’Assi Ghat, a sud dei ghat principali, è un buon posto dove osservare le puja (preghiere o offerte) al sole che sorge al mattino, mentre il Dasaswamedh Gath è molto suggestivo al tramonto poiché qui ha luogo la cerimonia del Ganga Aarti, l’adorazione del fiume. Non mancate di visitare il Vishwanath temple, il tempio d’oro, il più popolare tra i templi cittadini dedicati a Shiva con i suoi 800 chili d’oro a ricoprire la torre e la cupola.
La morte è un affare reale qui, quasi la si può sperimentare da vivi. Varanasi è la promessa della liberazione dal ciclo di morte, reincarnazione e rinascita e attira fedeli da ogni angolo del paese. Se qui esalerai il tuo ultimo respiro o se qui verrai anche solo cremato, Shiva il traghettatore verrà a sussurrare al tuo orecchio la formula segreta per la liberazione. E così un’umanità varia, malata, acciaccata viene qui a morire, nella speranza di non rinascere più in questo mondo. Il fuoco arde sempre e le ceneri dei morti vengono disperse nell’aria e tra le acque di Ganga, senza sosta. Fermatevi a bere un chay bollente, il dolcissimo tè nero con latte, profumato da zenzero, cannella, pepe nero e cardamomo. Lasciate che questa città vi parli. Varanasi non è la stessa per me e per voi e probabilmente non vi dirà le stesse cose in fasi diverse della vostra vita. Come tutti i luoghi che hanno qualcosa da dire, non risponde a nessuna domanda, ma sa sollevare nuovi interrogativi. Me ne sono andata delusa, cercavo una risposta che non ho trovato. Un anno dopo so che la risposta è una domanda nuova.

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Fonte: Varanasi. Le città letterarie, Vera Lazzaretti, Edizioni Unicopli, 2016.
Foto: Emiliano Allocco (Vedi altre foto di Emiliano)

Luang Prabang, il fascino intramontabile dell’antica capitale laotiana

Tutti si accorsero, già dal primo vagito, che Fa Ngum non era un bambino come tutti gli altri. Secondo la leggenda, nacque con trentatré denti e questo venne interpretato come un segno inequivocabile di cattivo auspicio. Il padre, disperato, interrogò tutti i migliori indovini del tempo, senza fortuna alcuna. Il verdetto fu implacabile. Il bambino venne bandito dal regno, fu adagiato in una cesta di vimini e abbandonato sulle acque del Mekong.
Miracolosamente il cesto giunse ad Angkor, l’antica capitale dell’impero Khmer. Il re di Angkor, appena vide il bambino, realizzò che non si trattava di un neonato qualsiasi. Decise di adottarlo e di crescerlo come suo figlio. Fa Ngum ricevette la migliore educazione del tempo e, una volta adulto, si maritò con una principessa Khmer, Keko Kant Ya. I due erano molto innamorati e felici, ma più il tempo passava più Fa Ngum avvertiva nostalgia di casa. All’età di 37 anni, insieme alla moglie, decise di intraprendere il viaggio che lo avrebbe riportato alle sue origini, a Luang Prabang. La coppia portò con sé un dono: una piccola statua d’oro del Buddha, realizzata in Sri Lanka oltre mille anni prima. La statua divenne il simbolo di Luang Prabang e il buddhismo la religione ufficiale di Lan Xang, il regno fondato da Fa Ngum sul quale governò 25 anni, fino alla morte della moglie quando, distrutto dal dolore, si ritirò a vita privata. La statua è visibile ancora oggi, fa bella mostra di sé al Palazzo reale cittadino.
Luang Prabang, l’antica capitale laotiana fondata da Fa Ngum, vi conquisterà. Questa città, adagiata alla confluenza tra i fiumi Mekong e Nam Khan, impreziosita da 33 wat (templi), riconosciuta dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità nel 1995, abbellita da edifici coloniali e colorata dalle tuniche zafferano dei monaci, vivace ma incredibilmente placida, vi affascinerà come poche altre città. E voi lasciatevi ammaliare.
Cominciate la vostra esplorazione dal mercato del mattino, un colorato susseguirsi di bancarelle, a pochi passi dal Palazzo reale, dove troverete gli avocadi più gustosi e i manghi più dolci. Giunti qua, recatevi a palazzo e ammirate la statua in lega d’oro del Buddha, alta 83 cm, che Fa Ngum portò in dono dalla vicina Cambogia.

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Proprio di fronte all’edificio, dall’altra parte della centralissima Th Sisavangvong, noterete una collina. Che ci fa lì? Ogni stranezza d’Oriente può vantare un racconto di origine popolare che cerca di darne una spiegazione, a volte sensata, spesso magica, sempre divertente.
L’origine della collina Phu Si, che con i suoi 100 metri di altezza domina il profilo del centro cittadino, sarebbe da imputare alla regina Sida che, colta da un’improvvisa quanto insaziabile voglia di funghi, convocò Hanuman, il re delle scimmie. Sida lo incaricò di recarsi in Sri Lanka e tornare da lei con un cesto di quei particolari funghi che erano soliti crescere solo sui monti di questo lontano paese. Hanuman tornò con una sporta ricolma di funghi, ma Sida lo rimandò indietro. Non erano quelli giusti. Dopo altri viaggi andati a vuoto, Hanuman implorò Sida affinché gli comunicasse almeno il nome dei funghi che tanto desiderava, per facilitargli la ricerca. La regina rifiutò. L’ortaggio era chiamato het sa noon che significa orecchio di scimmia e Sida era timorosa che Hanuman potesse offendersi. Esasperato, Hanuman si recò nuovamente in Sri Lanka, ma questa volta ebbe un’idea. Tagliò la cima di un monte e, una volta tornato a Luang Prabang, la adagiò proprio di fronte al palazzo reale e riferì alla sovrana che i funghi, che tanto desiderava, erano finalmente arrivati.
Armatevi di buona volontà e salite i 329 gradini che vi condurranno alla cima di Phu Si fino al That Chomsi, uno stupa dorato alto 24 metri. La vista della città da qua su è molto suggestiva. Incontrerete diversi templi salendo, il Wat Pa Huak, il Wat Thammothayalan, il Wat Siphoutthabat Thippharam e l’impronta del piede del Buddha impressa in una roccia. Se questa è davvero l’impronta lasciata dal Buddha, doveva essere un gigante!
Il Phu Si ospita un’area residenziale e il TAEC, un’interessante museo dove potrete approfondire la conoscenza delle culture tribali del Laos settentrionale. Annesso vi è uno shop di artigianato locale.

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Una volta ritornati in Th Sisavangvong, dove alla sera si tiene un bel mercato notturno di artigianato, visitate la zona di Xieng Mouane, un delizioso quartiere a due passi dal palazzo reale, immerso nel verde e abbellito da diversi wat, dove potrete scorgere ancora alcune tipiche abitazioni in legno, poggiate su tronchi di albero.

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Tra i molti wat presenti in città, merita una menzione speciale il Wat Xieng Thong che si erge nella penisola settentrionale. Questo antico monastero è costruito intorno a un sim (sala delle ordinazioni) del 1560. I bei tetti spioventi dell’edificio principale sembrano sfiorare il terreno e la parete esterna dell’edificio è impreziosita da un raffinato mosaico che raffigura l’albero della vita. Tutto intorno, si stagliano diverse stupe e tre piccole cappelle, hor. Poco oltre, all’altezza della confluenza tra il Mekong e il Nam Khan potrete attraversare un ponte di bambù, percorribile solo durante la stagione secca. Vi condurrà sulla riva opposta del Nam Khan, su una piccola spiaggia dove potrete godervi il tramonto sulla città.

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Molti turisti che si trovano a passare per Luang Prabang sono soliti prendere parte al Tak Bat, la questua mattutina dei monaci buddhisti. Questo rito antico si svolge immutato da secoli. Prima dell’alba, i monaci, avvolti nelle loro tuniche arancioni, escono dai templi e, nel corso di una lunga processione per le vie della città, raccolgono in urne tondeggianti il cibo offerto dai fedeli in attesa, seduti su bassi sgabelli o inginocchiati. Per lo più viene offerto del riso glutinoso, in alternativa vengono donati frutti o piccoli dolci che i monaci consumeranno nel corso della giornata in due pasti, la prima colazione e il pranzo. Dopo mezzogiorno, devono osservare un rigido digiuno fino al giorno successivo.
I turisti si riversano nella via principale, Th Sisavangvong e concorrono a rendere molto meno poetico questo rito. A tratti sembra un mercimonio. Repetita iuvant. Alcune semplici regole di buona educazione, affisse come promemoria all’ingresso di ogni tempio in città:

  • Partecipate attivamente al Tak Bat solo se questo ha un significato per voi. Non è folklore, rimane un importante rito religioso. Acquistate il riso al mercato mattutino e non dai venditori ambulanti lungo la via principale;
  • Se decidete di assistere, fatelo in silenzio e prendete posto sul marciapiede opposto a dove i fedeli attendono i monaci;
  • Scattate pure delle foto, ma non usate il flash, non ostruite la processione dei religiosi, non toccateli. Sembra ovvio, ma non chiedete a un monaco di farsi un selfie con voi;
  • Arrivate in Th Sisavangvong a piedi o in bicicletta. Se non potete fare a meno di recarvi sul posto in tuk tuk o scooter, parcheggiate una via più in là;
  • Non seguite la processione dei monaci a bordo di un tuk tuk. Nessuno dovrebbe essere in una posizione più alta rispetto ai religiosi;
  • Vestitevi in modo adeguato. Sono da evitare maglie scollate o senza maniche, minigonne e pantaloni sopra al ginocchio.

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Oltre alla città, ritagliatevi il giusto tempo per visitare anche i suoi meravigliosi dintorni. Ecco cosa fare nei pressi di Luang Prabang: Le grotte di Pak Ou, le cascate di Tam Kuang Si e un trekking nella giungla, a giro nei dintorni di Luang Prabang

Per scoprire un altro volto di Luang Prabang e dedicarvi a qualche attività meno turistica: Inseguendo un filo rosso: l’altro volto di Luang Prabang

Foto di Emiliano Allocco (Link a Flickr)

Immersi nella natura: a giro tra i meravigliosi paesaggi carsici di Vang Vieng

Abbiamo lasciato la calma Vientiane e ci siamo diretti verso Vang Vieng. Durante il viaggio in bus, non riuscirete a fare a meno di ammirare i paesaggi naturali ancora incontaminati che faranno capolino dal finestrino, Vi perderete ad osservare un bambino che corre dietro a una vacca che passeggia libera per strada o assisterete con interesse a una contrattazione alle bancarelle che affollano le strade. Quanta vita che scorrerà dinnanzi ai vostri occhi.
All’improvviso un paesaggio rurale raffinato e antico catturerà la vostra attenzione. Avvolta da risaie a perdita d’occhio, bagnata dal Nam Song e circondata da pittoresche rocce calcaree, ecco palesarsi a voi Vang Vieng. La città di per sé è senza fascino alcuno: il miraggio di un facile turismo di massa non ha lasciato spazio a uno sviluppo urbano ragionevole e sostenibile. La corsa a costruire l’albergo più alto che garantisca ai turisti la miglior veduta del tramonto sul Nam Song ha fatto danni forse irreparabili. Ma non perdetevi d’animo. Al di là del fiume si apre per voi un meraviglioso spettacolo della natura. Vang Vieng è un vero e proprio paradiso in terra per gli amanti dello sport. Qui potrete dedicarvi al kayaking o al tubing sul Nam Song, fare lunghi trekking tra le risaie, esplorare meravigliose grotte naturali, arrampicarvi sulle pareti di roccia calcarea, attraversare un ponte tibetano o lanciarvi appesi a una zip-line, osservare il paesaggio dall’alto a bordo di una mongolfiera o ancora fare lunghe escursioni in mountain bike.

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Oppure non fate assolutamente nulla! Semplicemente lasciatevi rapire dalla bellezza della natura e ritrovate la pace dell’anima. Non male come programma alternativo. Qualunque attività sceglierete di intraprendere, fatelo con il dovuto rispetto verso il luogo, i suoi abitanti e voi stessi. Fino a non molto tempo fa, Vang Vieng era una delle celebri capitali del divertimento sfrenato nel sud-est asiatico. Qui accorrevano giovani da tutto il mondo e fu un fiorire di rave bars lungo il Nam Song, festini sempre più spinti e droghe sempre più pesanti. Nel 2011, 25 giovani persero la vita a seguito di infarto, annegamento o per incidenti vari causati da zip-line costruite senza tenere conto di basici parametri di sicurezza. Nel 2012 il governo laotiano impose la chiusura dei rave bars e una seria operazione d bonifica venne portata a termine. Lentamente Vang Vieng  sta tornando a fiorire come paradiso naturale.

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Cos’è il tubing? Questo “sport” prevede di lanciarsi sui corsi d’acqua comodamente sprofondati in una camera d’aria di un pneumatico di un trattore. Stranezze d’Oriente! Attenzione alle correnti del fiume.
Le grotte (tàm) nei dintorni di Vang Vieng sono spettacolari, ma possono essere pericolose perché molto buie, profonde e scivolose. È estremamente facile perdere l’orientamento una volta dentro. Visitatele accompagnati da una guida locale e muniti di una torcia. Meglio averne una seconda di scorta o batterie di riserva. Non mancate di visitare le grotte più celebri della zona per bellezza:
– Tham Nam: si estende per 500 metri e dal suo ingresso inferiore sgorga un corso d’acqua che più a valle affluirà nel Nam Song;
– Tham Jang: 
questa grotta all’inizio del XIX secolo venne usata dai locali come rifugio contro i predoni cinesi giunti dallo Yunnan;
– Tham Hoi: una grande statua del Buddha sorveglia l’accesso a questa caverna che si narra si estenda per oltre 3 chilometri e ospiti un lago sotterraneo nelle sue profondità;
– Tham Loup: priva di segni di attività umane, è il luogo ideale dove ammirare alcune stalattiti di pregio;
Tham Phu Kham: questa grotta, sacra per i laotiani, deve la sua notorietà alla sua splendida laguna (la Blue Lagoon) le cui acque verde-blu sono un invito irresistibile a tuffarsi.

Foto di Emiliano Allocco (vedi le foto di Emiliano su Flickr)

 

 

 

 

Un viaggio lento, da Siem Reap a Battambang navigando il lago Tonlé Sap

Concedetevi il lusso di un viaggio lento, regalatevi il tempo di vedere e scoprire senza fretta alcuna. Se come me siete diretti a Battambang da Siem Reap, scegliete di viaggiare in barca, navigando il lago Tonlé Sap. Dopo la fatica della scoperta di Angkor rilassatevi in questo modo. Il Tonlé Sap è il lago d’acqua dolce più grande del Sud-est asiatico e da solo rifornisce di acqua e pesce metà popolazione della Cambogia. In prossimità di Phnom Penh è collegato al fiume Mekong per mezzo di un canale lungo un centinaio di chilometri e noto come fiume Tonlé Sap. Durante la stagione delle piogge, il livello del Mekong sale drammaticamente e per mezzo del fiume Tonlé Sap le acque risalgono a monte. In questo periodo la superficie del lago aumenta fino a cinque volte arrivando a coprire un’area di 16 mila kmq, mentre la sua profondità passa da 2 a 10 metri. Si stima che durante il periodo delle piogge il lago Tonlé Sap arrivi ad assorbire all’incirca il 20% delle acque del Mekong. Da ottobre il flusso si inverte e il fiume Tonlé Sap torna a seguire il proprio corso naturale, drenando le acque del lago nel Mekong.
Questo particolare processo dona al lago Tonlé Sap un ecosistema unico e lo rende l’habitat ideale di numerose specie di uccelli, serpenti, tartarughe e pesci d’acqua dolce. Nel 2001 il lago Tonlé Sap è stato dichiarato dall’UNESCO Riserva della Biosfera, ciononostante la costruzione scriteriata di dighe a monte e un’opera di deforestazione massiccia sono minacce concrete.

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Sul lago sorgono 170 villaggi galleggianti che ospitano in totale 90 mila abitanti, molti di etnia vietnamita. Le case sono a tutti gli effetti delle palafitte che durante i mesi di acqua alta sembrano davvero galleggiare. Gli abitanti vivono principalmente di attività quali la pesca, l’allevamento di gamberi e coccodrilli e la costruzione di imbarcazioni. Fermatevi a visitare questi villaggi e pranzate qua. Durante il viaggio verso Battambang vedrete incredibili scorci e paesaggi così belli da donarvi pace.

Foto di Emiliano Allocco (link a Flickr)

Un tuffo nel Mekong

Kratié è una tranquilla cittadina fluviale adagiata sulle rive del Mekong. Dopo il caos di Phnom Penh ci siamo rifugiati qui per godere della natura e ammirare meravigliosi tramonti sul fiume maestoso e imponente. Ieri pomeriggio, per pochi dollari, mio marito ed io abbiamo affittato una bici e ci siamo diretti verso Kampi, un villaggio a 16 km circa da Kratie.

Non potete sbagliarvi: c’è un’unica strada che collega i due paesi. Corre parallela al Mekong e attraversa una natura rigogliosa e piccoli villaggi rurali. Sarete l’attrazione dei bambini che vi correranno incontro per gridarvi “Hello” e i più audaci vi chiederanno anche “What’s your name?”. Riempitevi gli occhi di bellezza, natura e dei colori del tramonto sul fiume. Una gita romantica e appagante. Quanti tramonti ho visto quest’anno? Quante volte mi sono alzata presto per ritrovare la pace davanti al sorgere del sole? Sotto quanti cieli stellati ho sognato? Probabilmente il senso di estraneità e smarrimento che coglie più o meno tutti quando siamo soffocati dalla routine quotidiana nelle nostre belle città europee, intenti a correre fare lavorare, arriva da qua. Da un allontanamento dalla natura, dai suoi ritmi, dalla sua meraviglia. Contemplare l’incanto del creato aiuta a sentirsi parte del tutto e a riordinare priorità e paure.

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Oggi la giornata era calda e perfetta per un’escursione in kayak sul Mekong. Non fate come me! Prima di partire acquistate una crema solare. Saranno pochi dollari decisamente ben spesi.

Se siete interessati all’avvistamento delle orcelle o delfini dell’Irrawaddy recatevi a Kampi e qui affittate un kayak. Se preferite una gita organizzata, non vi sarà difficile trovarne una. Le orcelle sono delfini di acqua dolce, di colore blu scuro o grigio, che possono raggiungere i 2,75 mt di lunghezza. Hanno una fronte sporgente e rotonda e piccole pinne dorsali. Nonostante l’introduzione di rigide misure per proteggere la specie, sono a rischio estinzione e si stima che nel tratto del Mekong tra Kratié e il confine laotiano vivano appena 85 esemplari. Durante il regime dei Khmer rossi molte orcelle furono uccise per ricavare olio da bruciare nelle lampade per sopperire alla mancanza di elettricità.
Non credo l’avvistamento dei delfini dell’Irrawaddy valga l’escursione in kayak: se sarete fortunati ne vedrete alcuni, in lontananza, per pochi secondi appena. Ma navigare il Mekong, contemplarne la potenza, fermarsi su un banco di sabbia in mezzo al fiume e tuffarvi in acqua vi ripagherà.

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Foto di Emiliano Allocco