L’India la riconosci già dalla scaletta dell’aereo. È un profumo che ti avvolge, un odore che sapresti riconoscere tra mille, una promessa di avventure e vita, da vivere e da osservare. Ti accoglie calda, rumorosa, speziata. Si impregna nei vestiti e penetra nell’anima. A meno che non susciti un immediato e forse legittimo sentimento di repulsione, si insinua sotto la pelle e non va più via. Come ogni passione, è travolgente. Ma è altrettanto irrazionale. È possibile spiegare un amore? Perché la si ama? L’India sa essere ladra, misera, ammaliatrice, bugiarda, sempre sporca, spesso maleodorante, incredibilmente faticosa, ingiusta. Eppure chi la ama, non riesce a farne a meno perché l’India è più grande del mondo intero. Qui tutto è uno, nessuno è solo, il tempo è circolare, la vita scorre in modo diverso, si può andare alla ricerca dell’altro sicuri di non rimanere delusi, leggenda storia e tradizione coesistono e si fondono dando vita a una realtà magica. Tutto quello che sarà in India è già accaduto e ciclicamente tornerà per accadere ancora. E’ un mondo che non ha mai finito di dire quello che deve dire.
Ogni viandante è consapevole che un viaggio è un insieme vasto e variegato di luoghi visibili e luoghi invisibili. Si parte per conoscere il mondo, per osservare usanze, abitudini, riti e stili di vita. Si visiteranno templi, città e monumenti. Si scatteranno fotografie del visibile che si mostreranno ad amici e parenti. Ma il viaggio diventa pellegrinaggio solo quando l’invisibile si palesa. Due viaggiatori torneranno a casa avendo vissuto esperienze diverse, pur avendo soggiornato negli stessi luoghi. Ognuno di noi vede fuori quello che ha dentro. I pellegrini sanno che non si gode delle mille mila meraviglie nelle quali ci si imbatte. Di un luogo si ricordano le risposte che questo sa dare alle nostre domande e ai nostri bisogni e soprattutto gli interrogativi nuovi che pone, forzando il viaggiatore a ricercare nuove risposte e a intraprendere nuove vie. Questo sa fare l’India, egregiamente. In parte soddisfa una ricerca personale dando risposte a interrogativi latenti. Ma al tempo stesso è una squisita maestra, semina dubbi e interrogativi obbligando il viaggiatore a intraprendere una ricerca costante e un dialogo segreto e ininterrotto con il sé più profondo. Nulla è semplice in India, ma alla fine ne sarà valsa la pena.
Questa è per me la terza volta che vi torno, con fortune e vicissitudini alterne. Questo paese ancora mi affascina, mi spaventa e mi sorprende come la prima volta. Ne scrivo solo ora, timidamente perché solo adesso mi sembra di averne afferrato una piccola essenza.
Un posto del cuore è per me Kolkata. Ma della città visibile, delle sue meraviglie invisibili e degli interrogativi che pone parleremo in un altro post.
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Filosofia di un viaggio
Non potevo concludere la narrazione del Laos senza un paio di righe di chiosa. E allora ecco un flusso di coscienza senza grandi pretese e senza troppe ambizioni, né di essere esaustivo né tantomeno depositario di una qualche verità.
– Gli aeroporti, i porti, le stazioni dei treni e dei bus hanno un fascino magnetico. Sono luoghi che fanno a meno del tempo. Queste cattedrali del peregrinare muovono quotidianamente persone e merci, senza sosta. Il giorno non tramonta mai e la notte non viene. Qui il tempo è circolare, non c’è un inizio, non c’è una fine. Ognuno si muove a un ritmo proprio, indipendente da chi lo circonda. Fermatevi ad osservare il via vai dei flussi. E’ una lectio di filosofia;
– In viaggio, il tempo non esiste. Non si pranza alle 12, non ci sono meeting settimanali di lavoro, non si va in palestra alla solita ora il giovedì. E’ bello ogni tanto ricordare che la routine è una cattiva abitudine. Al di là delle consuetudini personali e sociali, ci sono albe da ammirare, pranzi all’ora di cena, pedalate a tarda notte e una geometria di esperienze da collocare in ordine sparso e casuale in un tempo che lineare non è;
– Che l’essenzialità diventi il vostro mantra. Uno zaino in spalle è più che sufficiente. Sarete i primi ad uscire dall’aeroporto, vi muoverete leggeri da una tappa alla successiva del vostro tour, non cederete alla tentazione di acquistare chincaglierie o souvenir di dubbia utilità. Lasciate a casa almeno qualcuno dei vostri soliti oggetti personali. Io ho imparato a viaggiare senza trucchi. Una piccolezza, certo, che tuttavia è per me un esercizio di autostima, consapevolezza, riscoperta e libertà. Fate qualcosa che di solito non fate. Portate con voi pochi vestiti, ben scelti. Riscoprirete di quante cose non abbiamo bisogno e quanti fardelli mettiamo ad appesantire il nostro vivere;
– Impegnatevi affinché le vostre vacanze diventino viaggi. Usate il vostro tempo libero dai doveri sociali, famigliari, lavorativi per imparare, crescere, scoprire. Se non sapete resistere allo shopping, che almeno sia il più etico e locale possibile. Diventiamo pellegrini, umili, curiosi, rispettosi dei luoghi, delle persone, delle tradizioni. Che il nostro passaggio in terre lontane sia invisibile. I segni dobbiamo portarli noi nell’animo, non di certo i luoghi che ci hanno ospitati. Buon pellegrinaggio;
– Osservatevi attorno, sempre. Curiosate. Al di là delle apparenze più varie, risiedono i bisogni umani più elementari e comuni. Gli stessi che albergano in noi. L’umanità che unisce le persone è più profonda del folklore locale. Oltre ai condizionamenti, alle abitudini e alle tradizioni, sempre scopriamo persone animate dai nostri impulsi e dal nostro stesso sentire;
– La curiosità è il mantra di ogni viaggiatore, ma non è in contrapposizione con la prudenza. Ciò che è fuori, è anche dentro di noi. Ognuno di noi ospita nel proprio animo vette e abissi e, quotidianamente, compie scelte che lo innalzano o lo fanno sprofondare nel buio più profondo. Il male esiste, fa parte del mondo e di noi. Un’attenta e prudente curiosità, pronta a sorprendersi e ad aprirsi al prossimo, è un requisito fondamentale di chi si mette in cammino;
– Viaggiare non presuppone necessariamente uno spostamento. Il viaggio è un’attitudine, una scoperta continua, una curiosità mai appagata, un’apertura sincera a ciò che è nuovo e diverso. Si impara molto, se si è disposti a farlo, quando si è in luoghi che non ci appartengono. Ma altrettanto si può fare restando fermi. Un libro, un film, uno spettacolo a teatro, la musica, l’arte, le relazioni umane sono finestre sul mondo. Il viaggio non finisce mai. Non tutti i viaggiatori hanno uno zaino sulle spalle. Non tutti i possessori di valigie sono viaggiatori. Ci sono molte strade, tanti percorsi singolari che conducono allo stesso luogo;
– Viviamo tempi bizzarri, incerti, infelici. I social sono parte della quotidianità, ormai a qualunque latitudine. Postate su Instagram e retwittate pure, ma siate rispettosi. Evitate selfie sorridenti di voi davanti a un calice di champagne, ma condividete pure foto delle bellezze che vedete. Portate con voi chi, per motivi vari, non può affrontare un viaggio, siate un mezzo di condivisione e scoperta del mondo. Non ostentate voi stessi. Fatevi strumento, non fine;
– La natura è la cura a tanti mali. La sottovalutiamo, la disprezziamo e ce ne dimentichiamo troppo spesso. Stili di vita più naturali ristabiliscono il nostro equilibrio interno. Quante albe avete contemplato nel vostro ultimo anno? Davanti a quanti tramonti vi siete fermati a riflettere di recente? Il viaggio è una riscoperta dell’importanza e della centralità della natura che è madre;
– L’ultimo pensiero va al Laos. E’ un paese bellissimo, incontaminato, verde, lento. Vi piacerà se siete alla ricerca di qualcosa di diverso, di altro, di un’alternativa alla modernità più esasperata. Questo paese minuscolo, selvaggio, ancora ferito da una guerra formalmente terminata oltre 40 anni fa, privo di una rete ferroviaria e industriale, vi ruberà il cuore. Qui, più che mai, è un dovere essere pellegrini. Se amate andare a Dubai per fare acquisti, potreste rimanere delusi. Per il resto, non manca nulla.
Quando il Mekong diventa Si Phan Don, perdersi per ritrovarsi in 4000 isole
Nell’estremo sud, al confine con la Cambogia, il Laos diventa la terra dei mangiatori di loto e fiorisce inaspettatamente in un meraviglioso arcipelago di migliaia di isole, adagiate sulle acque del Mekong. Siamo a Si Phan Don che, letteralmente, significa 4000 isole. Questa terra incantata vi ammalierà con la sua bellezza struggente, selvaggia, primitiva. Tutti i paesaggi che vi fermerete, stupiti, ad osserverete vi appariranno come uno scorcio da cartolina. Qui, più ancora che nel resto del paese, il tempo non esiste e la fretta è bandita.
In questo punto il Mekong raggiunge una larghezza di 14 chilometri, la massima ampiezza del suo lungo percorso che dall’altopiano tibetano si snoda per oltre 4.300 chilometri fino a confluire nel Mare Cinese del Sud. Durante la stagione secca, il fiume si ritira lasciando emergere centinaia o migliaia, se si annoverano nel conteggio anche le più piccole lingue di terra, di isole e isolette. Nella stagione delle piogge, circa la metà delle terre emerse viene sommersa dalle acque.
Le tre isole più visitate dai viaggiatori sono Don Det, Don Khong e Don Khon. Sono le più grandi e sono permanenti. Ospitano villaggi di pescatori, risaie, piantagioni di canna da zucchero, strade e immancabili strutture ricettive. Ovunque sceglierete di fermarvi, troverete un’amaca ad aspettarvi, appesa su una terrazza che si affaccia sul fiume. Comodamente sdraiati, lasciandovi cullare, assisterete al sorgere e al tramontare del sole sul Mekong. E’ uno spettacolo da non perdere. La bellezza e l’immortalità della natura, l’alternarsi perenne del giorno e delle tenebre contemplato nel silenzio più totale, sapranno rigenererarvi e lenire qualche ferita dell’anima.
Cosa fare alle 4000 isole?
Se siete amanti dello sport e delle attività all’aperto, potrete fare qualche escursione in kayak, andare a pescare, solcare il Mekong per cercare di avvistare i sempre meno numerosi delfini che popolano queste acque o ancora dedicarvi al tubing, un’insolita navigazione a bordo di camere d’aria. Il modo migliore per esplorare i dintorni è affittare una bicicletta. Non rischierete di perdervi. Esiste un’unica strada su ogni isola che corre lungo la costa e attraversa poi le campagne per ritornare, dopo un giro ad anello, da dove siete partiti. Le strade non sono asfaltate e sono popolate da animali che vagano liberi.
Le isole di Don Det e Don Khon sono unite da un ponte in muratura, eredità del colonialismo francese. L’isola di Khon ospita due belle cascate. Non mancate di visitarle.
Le cascate di Tat Somphamit si trovano su Don Khon a circa 2 chilometri a valle del ponte francese. Sono immerse in un ampio parco e comprendono una serie di rapide impetuose. Sono note anche con il nome di Li Phi che significa “trappola degli spiriti” e allude al fatto che la gente del posto sia fermamente convinta che queste acque riescano ad intrappolare gli spiriti maligni di persone e animali deceduti. Tra le varie rapide, l’acqua ribolle sempre vorticosamente anche nella stagione di secca. Conquistate uno dei tanti punti panoramici, sedetevi qui e lasciate andare gli spiriti malvagi che infettano la vostra anima. Imprigionate tra queste rocce i brutti pensieri e proseguite poi verso l’estremità posteriore del parco. Appena sotto le cascate, scoverete una piccola spiaggia sabbiosa, la spiaggia di Li Phi completamente sommersa nel periodo delle piogge. I laotiani non osano bagnarsi in questo tratto di fiume, timorosi di imbattersi in qualche spirito malvagio. Se siete impavidi, tuffatevi prestando però molta attenzione alle forti correnti.
Dalla parte opposta dell’isola, molto isolate, sorgono le cascate di Khon Pa Soi. Per raggiungerle, è necessario oltrepassare a piedi un grande e spaventoso ponte in legno sospeso per l’isola di Don Po Soi. Una volta dall’altra parte, proseguite lungo un minuscolo sentiero sconnesso e dopo 200 metri sarete giunti alla meta. Queste cascate sono imponenti, ma molto poco frequentate. Vantano belle spiagge sabbiose, cristalline dove potrete distendervi e fare una placida nuotata in solitaria.
Riprendete le biciclette e continuate a scoprire i dintorni, peregrinando senza destinazione e fermandovi qua e là dove scoverete una piccola spiaggia isolata o uno scorcio di natura che vi affascinerà. Nelle ore più calde del giorno, noterete molte bufale transumare verso il Mekong e immergersi lentamente nel fiume. Resteranno a mollo fino a quando il sole non tramonterà. Trovare il proprio posto del cuore su queste isole è facile, tanto quanto è difficile riprendere il traghetto per la terra ferma e lasciare Si Phan Don.
Foto di Emiliano Allocco (Guarda le foto di Emiliano su Flickr)
All’improvviso il paradiso: in bici da Champasak al Vat Phu, lentamente a giro lungo il Mekong tra paesaggi millenari di straordinaria bellezza
Champasak vi stupirà. Questo piccolo paesino, adagiato sulle sponde del Mekong, si snoda interamente lungo la sua via principale. Vi apparrirà sonnolento e incredibilmente quieto. Solo un cerchio di fontane al centro della strada e qualche bell’edificio coloniale parlano di un passato glorioso. E’ il posto ideale se siete alla ricerca di quiete e se amate andare in bicicletta. Lungo l’unica strada asfaltata, dovrete vedervela con qualche mucca che pascola libera ed evitare i polli che attraverseranno la via senza preavviso. Potrete contare sulle dita di una mano i motorini e le auto che incroceranno il vostro andare.
Eppure non fu sempre così. Molto tempo addietro, all’incirca 1500 anni fa, Champasak fu il centro del potere nel bacino meridionale del Mekong. Più tardi, fu un importante avamposto dell’impero Khmer di Angkor e ancora uno dei tre regni che governarono sulle rovine di Lan Xang, la terra di un milione di elefanti, fondata da Fa Ngum.
Affittate una bicicletta e iniziate la vostra esplorazione dei dintorni. Prima di lasciare Champasak e dirigervi verso il Vat Phu, la principale attrazione del luogo, osservate le due belle ville coloniali in muratura che svettano accanto a modeste case in legno della tradizione laotiana. L’edificio bianco è del 1952 ed era il palazzo di Chao Boun Oum, il fratello del re. Una via più in là, un palazzo in stile coloniale francese del 1926 fa bella mostra di sé. Era la residenza di Chao Ratsadanai, il padre del re.
Costeggiate il Mekong e respirate bellezza. Pedalate con calma per non perdere nemmeno uno degli scorci che si presenteranno dinnanzi ai vostri occhi. Giunti all’incirca 3 chilometri a est di Champasak, noterete dei cartelli che segnalano le rovine dell’antica capitale. Potete deviare nelle campagne e andare alle ricerca di quel che rimane della città vecchia, Muang Kao. Questo insediamento di forma rettangolare lungo 2,3 per 1,8 chilometri è quel che rimane di Shrestpura la capitale del regno mon-khmer di Chenla quando circa 1.500 anni fa quella che è ora Champasak governava sul bacino inferiore del Mekong.
Dopo una decina di chilometri arriverete al Vat Phu, un meraviglioso e antico complesso sacro khmer situato a 1400 metri di altitudine sulle pendici montuose di Phu Pasak. Questo tempio è stato iscritto nel 2001 nella lista dei siti Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. Sebbene di dimensioni ridotte rispetto ai maestosi templi della vicina Angkor in Cambogia, il Vat Phu vi ammalierà con i suoi padiglioni in rovina, il suo lingam di Shiva squisitamente decorato, la sua misteriosa pietra del coccodrillo e i frangipani che si arrampicano sulle pendici del monte a regalare ombra e poesia anche ai viandanti più distratti.
Questo santuario era un importante luogo di culto già verso la metà del V secolo. Come i templi di Angkor, anche il Vat Phu è stato progettato per essere una rappresentazione terrena del monte Meru, la montagna sacra dell’hinduismo, del giainismo e del buddhismo. Il monte Meru era considerato il centro fisico, metafisico e spirituale dell’universo, contava 5 picchi ed era abitato da antiche divinità. Il Vat Phu era inserito in un progetto urbanistico più amplio che comprendeva una rete stradale, una città, altri edifici di culto e insediamenti di vario genere. Le rovine giunte a noi sono il frutto di secoli di rimaneggiamenti, ampliamenti e ricostruzioni. Gli edifici più recenti risalgono al tardo periodo angkoriano. Nei dintorni di questo santuario si trovano le rovine di altri tre siti archeologici di dimensioni minori, sempre risalenti al periodi di Angkor. Tutti questi resti sorgono lungo l’antica strada reale lunga 200 chilometri che conduceva proprio ad Angkor Vat in Cambogia.
Comprate una bottiglia d’acqua, indossate un cappello a tesa larga e iniziate la vostra scarpinata fino alla cima del santuario. Il Vat Phu si snoda su tre livelli principali che ospitano sei terrazzamenti. Ogni livello si lega al successivo per mezzo di una ripida e dissestata scalinata in arenaria.
Il livello inferiore è caratterizzato da un lungo viale cerimoniale rialzato, puntellato da boccioli di loto in pietra e fiancheggiato da ampi baray (vasche artificiali), irrorati da acque dove fioriscono rigogliosi i fior di loto.
Il livello intermedio ospita due padiglioni quadrangolari in arenaria e laterite finemente scolpiti, il padiglione Nardi dedicato alla cavalcatura del dio Shiva da cui partiva la strada reale che conduce ad Angkor e un’imponente statua di un guardiano dvarapaia, raffigurato eretto, fiero, con in pugno una spada. La statua è molto venerata ancora oggi. Non mancherete di trovare ai piedi del guardiano qualche bastoncino di incenso che brucia profumando l’aria intorno.
Nel livello superiore scorgerete il santuario vero e proprio dove era custodito il lingam di Shiva che, per mezzo di una serie di canali e tubature, veniva irrorato dalle acque della sacra sorgente che sgorga, ancora oggi, dietro l’edificio. Immediatamente alle spalle del santuario, noterete un grosso masso sul quale è scolpita una Trimurti in stile khmer che raffigura la sacra triade hindu formata da Brahma, Shiva e Vishnu.
Arrampicatevi sul piccolo sentiero sconnesso che parte da qua fino a scovare un’ampia parete rocciosa sulla quale sono scolpiti una grande impronta del Buddha e un elefante. Poco oltre, in direzione nord, in un’area disseminata di rocce e cumuli di rovine, vedrete due singolari sculture in pietra: la pietra dell’elefante e la pietra del coccodrillo. Si narra che quest’ultima venisse usata per compiere sacrifici umani, ma non vi sono evidenti prove a suffragio. Non molto distante, ammirate i resti di una cella di meditazione e una sezione di una scalinata scolpita nella pietra e incorniciata da due serpenti.
Avete visto tutto quell che c’era da scoprire. Trovate un posto all’ombra della fitta vegetazione e ammirate la valle ai vostri piedi.
Prima di inforcare le biciclette e far ritorno a Champasak, deviate per il vicino santuario di Hong Nang Sida che si crede fosse il centro di una seconda città costruita nei pressi del Vat Phu, dopo l’abbandono di Shrestpura. Con buona probabilità, questo secondo insediamento si chiamava Lingapura.
Cosa fare alla sera a Champasak?
Andate al cinema o a teatro! Vi sembrerà strano, ma questo minuscolo borgo ospita accanto all’ufficio turistico un piccolo quanto delizioso teatro delle ombre e il cinema Tuktuk. Qui il martedì e il venerdì sera potrete assistere a una rappresentazione della storia epica del Ramayana per mezzo dell’antica arte delle ombre. Nelle sere di mercoledì e sabato viene proiettato all’aperto il film muto Chang: la giungla misteriosa del 1927. Questa pellicola fu diretta dai registi di King Kong e fu candidata alla prima edizione degli Oscar. E’ in assoluto il primo documentario narrativo sulla vita nella giungla nel Sud Est asiatico. Gli autori, Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack, impiegarono una settimana per raggiungere la provincia thailandese di Nan, al confine con il Laos, e ben 18 mesi per girare dal vero tutte le scene più pericolose del film con una camera nascosta a focus fisso. Le alterne vicende della famiglia del carpentiere Kru sono accompagnate da una colonna sonora suonata dal vivo da 14 artisti (musicisti, commedianti e cantanti) della troupe del teatro delle ombre di Champasak. Non perdetevi lo spettacolo!
Leggi anche: Il paradiso in terra, in bici tra i templi di Angkor
Foto di Emiliano Allocco (Guarda le foto di Emiliano su Flickr)
Quando il viaggio vale la meta, da Phonsavan a Pakse in bus per scoprire il plateau di Bolaven
Ebbene si, ce l’abbiamo fatta! Dopo 17 lunghe ore di viaggio siamo arrivati a Pakse. Dalla stazione nord di Phonsavan, parte quotidianamente un bus alle 7 di mattina che vi condurrà a Pakse, con arrivo previsto intorno alla mezzanotte. Questo trasferimento, è di per sé un viaggio nel viaggio. Mettetevi comodi, armatevi di pazienza e divertitevi quanto più potete. Alla partenza, vi verrà consegnata dall’autista una busta in plastica con all’interno una bottiglia d’acqua e un paio di dolci per sostenervi nelle lunghe ore che seguiranno. Le strade del Laos sono difficili, dissestate, spesso non asfaltate. Una parte del viaggio si snoda tra stradine di montagna, molto curve. I viaggi in Asia, e in particolare in questo piccolo paese antico ancora senza una rete ferroviaria, funzionano in modo leggermente diverso da come siamo abituati noi europei. Non si viaggia spesso da queste parti e quando lo si fa, si portano con sé molti bagagli, a volte particolarmente ingombranti. Se vi capita di viaggiare accanto a una gabbia di polli ruspanti o a un sacco di riso, non fateci caso. E’ normale. Tutti i bagagli vengono caricati in qualche modo. Non importa quanti siano e quanto spazio occupino. Alcuni saranno legati sul tetto dell’automezzo, altri caricati nelle cappelliere o nelle stive, altri ancora troveranno posto tra le vostre gambe. Solitamente vengono venduti tanti biglietti quanti sono i richiedenti. Se i posti a sedere sono inferiori al numero di passeggeri, l’autista tirerà fuori piccoli sgabellini che verranno posizionati nel corridoio centrale della corriera. Affrettatevi a salire sul bus, se volete accaparrarvi un sedile standard.
Lungo la via verranno effettuate molte soste per permettere ai viaggiatori di andare alla toilet, di mangiare o fumare. Oltre alle tappe prestabilite, il bus si fermerà dove richiesto da chi deve scendere con pacchi ingombranti e, lungo la strada, caricherà chiunque farà segno di voler salire, ovunque esso si trovi. Ma nonostante qualche scomodità oggettiva e la lentezza del tempo che sembra non passare mai, in un viaggio così non potrete che divertirvi. Ci sarà sempre qualcuno che vi offrirà un involtino di riso cotto nelle foglie di vite o una fetta di papaya. Siate pronti a contraccambiare. All’ora della nostra cena, durante la sosta, sono spuntate delle bottiglie di BeerLao e insieme abbiamo brindato all’anno che finiva. Dopo tutte quelle ore passate insieme, si può dire di essere ormai quasi amici!
Una volta a Pakse, riposatevi. Ve lo meritate e poi partite alla volta del vicino Altopiano di Bolaven. Pakse è la capitale della provincia di Champasak e il punto di accesso privilegiato al Laos meridionale. Sorge alla confluenza dei fiumi Mekong e Don. Non vanta particolari attrazioni, se si escludono pochi edifici rimasti dall’epoca coloniale.
Il vicino plateau di Bolaven vi ammalierà con la sua bellezza e vi infonderà pace. Questo altopiano si estende a cavallo delle quattro province meridionali del paese ad un’altitudine compresa tra i 1.000 e i 1.300 metri. E’ costellato da una fertile e rigogliosa vegetazione, meravigliose cascate, diversi fiumi, estese piantagioni di caffè e tè, sferzato da un clima fresco e temperato e irrorato da copiose piogge.
Non mancate di visitare le cascate di Tat Fan, alimentate da due torrenti che emergono all’improvviso dalla foresta e precipitano per più di 120 metri, originando il fiume Huey Bang Lieng. Includete nel vostro tour anche le vicine cascate di Tat Gneuang, scenografiche e immerse nel verde di un lussureggiante parco dove è possibile trascorrere la giornata facendo un pic-nic in compagnia. Questa cascata nasce da due torrenti che corrono paralleli e si gettano con un salto di 40 metri a strapiombo nella selvaggia giungla sottostante.
I laven sono il gruppo etnico più numeroso che abita questo altopiano (Bolaven significa infatti ‘casa del laven’), ma questo plateau è abitato anche da altre minoranze quali i mon-khmer, gli alak, i katu, i tahoy, i suay.
I francesi furono i primi a piantare il caffè, gli alberi della gomma e i banani su questo altopiano agli albori del XX secolo. ll piccolo paese di Paksong è considerato la capitale laotiana del caffè. Svetta a 1.300 metri di altezza su un fertile suolo scuro, eredità di un antico vulcano ormai estinto.
Visitate le piantagioni di tè e caffè e non mancate di degustare una tazza fumante di Lao coffee alla fine del vostro tour. Scoprite qualcosa in più su CPC, la Cooperativa di Produttori di Caffè dell’Altopiano di Bolaven costituitasi nel 2007 con l’obiettivo di ottenere un miglior accesso al mercato globale del caffè per i piccoli produttori locali. Per saperne di più: http://www.cpc-laos.org
Foto di Emiliano Allocco (Link alla pagina Flickr di Emiliano)