Villaggio operaio di Crespi d’Adda, la storia straordinaria di un esperimento sociale e imprenditoriale

“Grave è la questione degli infortuni in Italia, specialmente nella filatura del cotone; e quando gli imprenditori di una grande industria avranno applicato tutti i mezzi suaccennati per prevenire e attutire gli effetti degli infortuni, avranno compiuto un sacrosanto dovere, ma saranno ancora ben lungi dall’aver riconosciuto e soddisfatto a tutte le responsabilità che loro spettano. L’uomo, creatura essenzialmente libera, amante d’aria e di luce e bisognosa di svilupparsi al sole nel salutare travaglio della sua genitrice, la terra, è costretto invece dalla civiltà ad accomunarsi con altri suoi simili, fino a diventare un semplice organo di una macchina enorme, a servire soltanto come un ingranaggio. La grande industria è dunque contraria alla natura umana, al suo sviluppo fisico. La responsabilità di quegli imprenditori è dunque incalcolabile, come immensa la latitudine del loro dovere, il quale consiste nel conciliare le necessità dell’industria colle esigenze della natura umana, in modo che i progressi dell’una non siano mai per inceppare lo sviluppo dell’altra. […] Ultimata la giornata di lavoro, l’operaio deve rientrare con piacere sotto il suo tetto: curi dunque l’imprenditore che egli vi si trovi comodo, tranquillo ed in pace; adoperi ogni mezzo per far germogliare nel cuore di lui l’affezione, l’amore alla casa. Chi ama la propria casa ama anche la famiglia e la patria, e non sarà mai la vittima del vizio e della neghittosità. I più bei momenti della giornata per l’industriale previdente sono quelli in cui vede i robusti bambini dei suoi operai scorrazzare per fioriti giardini, correndo incontro ai padri che tornano contenti dal lavoro; sono quelli in cui vede l’operaio svagarsi ed ornare il campicello o la casa linda e ordinata; sono quelli in cui scopre un idillio o un quadro di domestica felicità; in cui fra l’occhio del padrone e quello del dipendente, scorre un raggio di simpatia, di fratellanza schietta e sincera. Allora svaniscono le preoccupazioni di assurde lotte di classe e il cuore si apre ad ideali sempre più alti di pace e d’amore universale.” Così scriveva nel 1894 Silvio Benigno Crespi nella sua opera giovanile “Dei mezzi per prevenire gli infortuni e garantire la vita e la salute degli operai nell’Industria del cotone in Italia”.
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Imprenditore, cofondatore e presidente dell’Associazione Cotoniera, deputato e senatore nelle file dei liberali cattolici, teorizzatore e appassionato propugnatore di un’idea sociale del fare impresa, Silvio era il figlio primogenito di Cristoforo Benigno Crespi. Si laureò in giurisprudenza all’Università degli Studi di Pavia ad appena 21 anni, si recò in seguito in Francia, Germania ed Inghilterra per seguire gli sviluppi dell’industria cotoniera. Collaborò prima e successe poi al padre nella conduzione del cotonificio di Crespi d’Adda che ampliò insieme al villaggio operaio.
Crespi d’Adda si trova alla confluenza dei fiumi Adda e Brembo, in territorio bergamasco. E fu qui, in quest’area dedita all’agricoltura di mera sussistenza ed economicamente depressa, che nel 1878 Cristoforo Benigno Crespi impiantò la filatura del cotone. I 5.000 fusi iniziali ben presto raddoppiarono e in poco tempo divennero 80.000. Si aggiunsero i reparti di tessitura e tintoria, rispettivamente nel 1894 e nel 1898. Il cotonificio raggiunse dimensioni enormi e arrivò a dare lavoro a 4.000 persone. Nel 1904 Cristoforo Crespi fece costruire anche la centrale idroelettrica di Trezzo d’Adda, oggi nota come Taccani. In parallelo sorse il villaggio, una vera e propria cittadina costruita dal nulla dai Crespi per i loro dipendenti e per le famiglie di questi. I lavoratori avevano a disposizione una casa con orto e giardino e tutti i servizi necessari: un lavatoio per evitare la fatica di recarsi al fiume con ceste pesanti, una chiesa, un dopolavoro, un complesso sportivo, mense, scuole gratuite, un ospedale di primo soccorso e un cimitero. In questo piccolo mondo perfetto, il padrone regnava dal suo castello e provvedeva ai bisogni dei suoi dipendenti come un buon padre di famiglia, dentro e fuori la fabbrica, dalla culla alla tomba, anticipando le tutele sociali dello Stato e colmando i suoi ritardi nella legislazione in materia. Dopo le tre case plurifamigliari degli inizi, attorno all’opificio sorsero numerose casette operaie bifamigliari e, dopo la Prima Guerra Mondiale, villette per impiegati e dirigenti. I criteri che mossero progettisti e architetti furono improntati a geometria, razionalità, funzionalità e… bellezza! L’intero villaggio gioca sul binomio funzionalità e arte, perché anche e soprattutto in un contesto produttivo la bellezza è imprescindibile dalla vita umana e contribuisce a dare un senso all’esistenza, elevandola ai massimi termini. L’armonia d’insieme appare ancora più sorprendente se si considera che l’intero complesso venne realizzato in anni diversi e la fase di sviluppo durò complessivamente quasi cinquant’anni. Particolarmente interessante è la chiesa di Crespi, copia perfetta di quella di Busto Arsizio, edificio di scuola bramantesca. I Crespi vollero omaggiare con questo gesto d’affetto il loro paese d’origine e la cultura italiana. Il 5 dicembre 1995, l’UNESCO ha inserito Crespi d’Adda tra i siti patrimonio mondiale della cultura (World Heritage List) in quanto “esempio eccezionale del fenomeno dei villaggi operai, il più completo e meglio conservato del Sud Europa”.

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Alcune curiosità su Crespi d’Adda:
–  Crespi d’Adda fu il primo villaggio in Italia ad essere dotato di illuminazione pubblica con il sistema moderno Edison;
–  Nella scuola di Crespi, riservata ai figli dei dipendenti, tutto era pagato dalla fabbrica, dalla cancelleria ai libri di testo, allo stipendio degli insegnanti;
– A inizio Novecento, venne costruita una piscina coperta gratuita con docce, spogliatoi e acqua calda;
– Crespi, seppure situata in provincia di Bergamo, ha il prefisso telefonico di Milano poiché i Crespi fecero installare una linea telefonica privata a lunga distanza che collegava il loro castello con la residenza di Milano;
– Silvio Benigno Crespi rappresentò l’Italia ai trattati di Versailles dopo la Prima Guerra Mondiale;
–  Silvio Benigno Crespi, appassionato d’auto, promosse negli anni Venti la costruzione delle prime autostrade d’Italia e dell’autodromo di Monza;
–  I Crespi erano appassionati d’arte e tra le opere della loro collezione privata, ora ospitata in vari musei del mondo, c’era La Schiavona di Tiziano.
Il cotonificio non non resse l’urto della Grande Depressione. Nel 1930 i Crespi dovettero rimettere tutto nelle mani della creditrice Banca Commerciale Italiana. La fabbrica rimase in funzione, con fortune alterne e diversi proprietari, fino al 2003 senza cambiare mai il settore di produzione, il tessile cotoniero. Oggi il villaggio è abitato da una numerosa comunità di discendenti degli operai che qui vissero e lavorarono ed è possibile visitarlo.
Per maggiori informazioni e per organizzare la vostra visita:
http://www.villaggiocrespi.it/
Dove: Piazzale Vittorio Veneto 1, Crespi d’Adda. Il Villaggio Crespi d’Adda si trova lungo l’autostrada Milano – Bergamo (uscita Capriate)

Foto di Emiliano Allocco (clicca qui per vedere altre foto di Emiliano su Flickr)

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Trieste, la Risiera di San Sabba

Quante vite può avere un luogo? Questa è la storia di un opificio edificato in origine per la lavorazione e la trasformazione del riso e trasformato, suo malgrado, prima in una caserma militare e poi in un campo nazista di detenzione e di polizia. Queste mura ospitano oggi un museo che vuole conservare la memoria di quel che è stato, restituire dignità a chi qui incontrò paura e morte e tramandare ai posteri la sua storia perché quel che fu non sia più.
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Nel febbraio del 1898 la locale società di Pilatura del riso del Litorale acquistò i terreni del rione di San Sabba, nella periferia di Trieste, per edificarvi un insieme di edifici destinati alla lavorazione del riso. L’opificio rimase in attività fino ai primi anni ‘30 e dopo il 1940 fu convertito in una caserma militare. In seguito all’occupazione del territorio da parte delle forze tedesche, l’ex opificio fu utilizzato prima come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 per essere poi trasformato nel Polizeihaftlager della Risiera di San Sabba, un campo di detenzione e di polizia. Dopo la fine della seconda guerra mondiale e fino al 1965, la Risiera divenne un campo di raccolta per i profughi in fuga dai paesi al di là della cortina di ferro. Il 15 aprile 1965 l’allora Presidente della Repubblica italiana Giuseppe Saragat dichiarò la Risiera di San Sabba monumento nazionale per la sua rilevanza storica e politica, consegnandola ai posteri e alla Storia come luogo della memoria legato alle vicende dell’occupazione nazista d’Italia.
La Risiera fu uno dei quattro Polizeihaftlager italiani insieme a FossoliBorgo San DalmazzoBolzano, ma fu l’unico dotato di un forno crematorio. La sua complessa realtà emerge dall’inchiesta giudiziaria svolta all’epoca del processo celebrato nel 1976. Nella sentenza che ne seguì si afferma che il Lager della Risiera di San Sabba fu per le vittime della persecuzione razziale quasi esclusivamente un campo di transito, mentre rappresentò un carcere o il braccio della morte per le vittime della persecuzione politica o per chi si macchiò di crimini di guerra. I nazisti lo usarono inoltre come centro per la predisposizione di azioni militari e di rastrellamento. Chi era destinato alla deportazione veniva trasportato per mezzo di autocarri telonati alla Stazione centrale di Trieste da dove partivano i treni diretti in Polonia o in Germania.

Quante persone
trovarono la morte nel Polizeihaftlager della Risiera
Le ricerche storiche non permettono ad oggi di fornire un dato preciso. In sede di processo (1976) si ipotizzarono “non meno di 2.000 vittime”, ma alcuni storici stimano tra i 4.000 e i 5.000 morti. Le esecuzioni avvenivano solitamente di notte. Le SS e i militari ucraini al loro soldo erano gli addetti alle soppressioni che avvenivano per impiccagione, fucilazione, gassazione o tramite colpi di mazza. E’ certo che qui furono massacrati circa 25 ebrei poiché considerati incapaci di affrontare il viaggio di deportazione.

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Il processo²
Il processo per i crimini commessi tra le mura della Risiera si svolse tra il 16 febbraio e il 28 aprile 1976 presso la Corte d’Assise di Trieste dopo un lunghissimo e travagliato iter giudiziario iniziato 30 anni prima. 174 testimoni, 2 imputati per omicidio plurimo pluriaggravato continuato: August Dietrich Allers e Josef Oberhauser. I reati di omicidio contro partigiani ed esponenti politici della Resistenza furono esclusi dai capi di imputazione perché motivati dalle leggi di guerra. Il 29 aprile 1976 Josef Oberhauser fu condannato all’ergastolo, ma non scontò la pena perché l’estradizione non fu autorizzata. August Dietrich Allers morì prima che il processo cominciasse. Fu tutto inutile? Probabilmente no, perché il processo permise di fare luce su quel che avvenne in questo Polizeihaftlager.

La Risiera di San Sabba oggi³

Il Museo della Resistenza della Risiera di San Sabba nasce dal progetto dell’architetto triestino Romano Boico (1910 – 1975): “Eliminati gli edifici in rovina ho perimetrato il contesto con mura cementizie alte undici metri, articolate in modo da configurare un ingresso inquietante. Il cortile cintato si identifica, nell’intenzione, quale una basilica a cielo libero. L’edificio dei prigionieri è completamente svuotato e le strutture lignee scarnite di quel tanto che è parso necessario. Inalterate le diciassette celle e quella della morte. Nel cortile un terribile percorso in acciaio, leggermente incassato: l’impronta del forno, del canale del fumo e della base del camino“.

Qualche informazione utile
Orario di visita: tutti i giorni dalle 9-17. Ingresso gratuito.
Dove: Via Giovanni Palatucci, 5 – Trieste.
T. +39 040 826202
risierasansabba@comune.trieste.it
Come arrivare: Go Green! Autobus 8 e 10
Per maggiori informazioni: https://risierasansabba.it

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Fonte: La Risiera di San Sabba, Edizioni Civici musei di storia ed arte, Comune di Trieste, 2016, ISBN 978-88-87377-62-0
Foto di Emiliano Allocco (clicca qui per vedere altre foto)

¹ La Risiera di San Sabba, Edizioni Civici musei di storia ed arte, Comune di Trieste, 2016, pag. 22
² La Risiera di San Sabba, Edizioni Civici musei di storia ed arte, Comune di Trieste, 2016, pag. 40
³ La Risiera di San Sabba, Edizioni Civici musei di storia ed arte, Comune di Trieste, 2016, pag. 41

Sulle tracce di Monet: a giro per Dolceacqua

Nel ponente ligure, sorge un meraviglioso borgo medievale abitato da poco più di 2.000 anime. Un luogo così delizioso che riuscì ad affascinare anche Claude Monet.
E’ un paese incantevole, situato a pochi chilometri dalla vicina città di Ventimiglia e dal confine con la Francia. Dolceacqua si sviluppa lungo le rive del torrente Nervia, nell’omonima vallata. E’ composta da due nuclei distinti, al di qua e al di là del Nervia, collegati tra loro da un ponte medievale.  Il quartiere Terra, la parte storica della città, è dominato dal castello dei Doria. Suggestivi e senza tempo i caruggi, i vicoli stretti e acciottolati, che dalle rive del Nervia si arrampicano su fino al castello. Sui caruggi si affacciano graziose botteghe di artisti, di artigiani locali e negozi che smerciano prodotti enogastronomici tipici.
Girando senza meta tra i vicoli, si possono ammirare scorci suggestivi carichi di poesia. I panni stesi ad asciugare tra le case, le fontane in pietra, le lanterne basse ad illuminare gli angoli più bui, l’edera che si arrampica sulle facciate delle abitazioni, i fiori che decorano le finestre concorrono a creare una realtà che non sembra essere stata sfiorata della modernità.

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Monet, accompagnato dall’amico Auguste Renoir, si recò in Riviera sul finire del 1883 e qui si trattenne per una quindicina di giorni. Rimase così affascinato da questi luoghi da volerci fare presto ritorno. E così il 23 gennaio dell’anno successivo, Monet arrivò a Bordighera. Nel suo vagabondare in Liguria, si spinse fino alla val Nervia e a Dolceacqua. Ritrasse il ponte e il castello dei Doria in tre tele e dedicò un quarto lavoro ai paesaggi brulli della valle.
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Monet annotò, tra i suoi appunti di viaggio, il sopralluogo a Dolceacqua: “18 febbraio 1884, Dolceacqua nella val Nervia. Il luogo è superbo. Vi è un ponte che è un capolavoro di leggerezza”.
Dal 2011 ai lati del ponte, nei punti in cui si crede che Monet posizionò il cavalletto per dipingere, sorgono due pannelli che riproducono le opere del pittore.

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Ecco le opere che Monet dedicò a questo borgo e alla sua valle:

Vale la pena arrampicarsi fino al castello dei Doria e fermarsi a visitarlo per scoprire la storia della città. Il castello fu eretto nel XII secolo e subì, nel corso degli anni, alcune importanti trasformazioni. Resistette a diversi assedi e al terremoto del 1887. Dal 1987 è stato acquisito dal Comune cittadino. Nelle giornate di sole, si gode di una meravigliosa vista sulla valle. Per informazioni sugli orari di visita: 0184 229507 o 337 1004228.

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Per chi lo desidera, dal castello partono alcune passeggiate verso l’entroterra.
Dolceacqua vale certamente una visita, dedicata o di passaggio mentre vi recate al mare. Se non credete a me, fidatevi almeno del giudizio di Monet! Buon viaggio.