Oggi mi sono recata a Oświęcim, una tranquilla cittadina industriale di medie dimensioni a circa 40 km a ovest di Cracovia. Oświęcim è il nome polacco di Auschwitz. Qui durante il secondo conflitto mondiale venne creato il primo campo di concentramento nazista nei territori polacchi occupati dalla Germania e questo, tristemente, divenne il più grande campo di sterminio tra quelli costruiti dal Terzo Reich. Si stima che qua persero la vita 1 milione e 500 mila persone. Fu in uso dal giugno 1940 al gennaio 1945 e nel periodo di massima attività (agosto 1944) era composto da tre campi principali: Auschwitz I, Auschwitz II – Birkenau a circa 3 km di distanza e Auschwitz III – Monowitz a 9 km (qui fu internato Primo Levi) e da alcune decine di sottocampi.
La visita inizia da Auschwitz I varcando il cancello Arbeit Macht Frei (Il lavoro rende liberi). Poco dopo l’ingresso vi è lo spiazzo dove l’orchestra del campo si radunava per suonare marce che scandivano il tempo del lavoro e davano ritmo. Nei venti blocchi in mattoni rossi è allestita una mostra permanente e molto accurata che illustra la vita e la morte nel campo. Non possono lasciare indifferenti le sale che raccolgono gli oggetti personali (scarpe, pettini, abiti religiosi, valigie) requisiti ai deportati e le cataste di capelli che venivano tagliati ai prigionieri, raccolti in sacchi e venduti a ditte tedesche che li utilizzavano per la produzione di tessuti e feltro. I beni preziosi sottratti ai detenuti venivano stoccati nei cosiddetti magazzini Canada. La mostra si concentra sulle condizioni igieniche e sanitarie dei prigionieri, sul funzionamento delle camere a gas e degli annessi forni crematori, dedica una sezione alla vita delle donne e dei bambini nei campi e agli esperimenti medici qui condotti. Di notevole rilevanza i blocchi 11 e 20. Il primo era la prigione del campo di concentramento. Appena fuori svetta il Muro della Morte, dove venivano fucilati i condannati. Nei sotterranei del blocco 11 nel settembre del 1941 venne condotto il primo tentativo di uccisione di massa con l’utilizzo del gas Zyklon B. Morirono 600 prigionieri di guerra sovietici e 250 prigionieri polacchi. Nella cella di detenzione 18 morì padre Maksymilian Maria Kolbe, un francescano polacco che si offrì di prendere il posto di un padre di famiglia destinato al bunker della fame (i tedeschi condannavano a morte per fame 10 detenuti per ogni prigioniero che riusciva ad evadere). Padre Kolbe è stato beatificato nel 1971 da papa Paolo VI e quindi proclamato santo nel 1982 da papa Giovanni Paolo II.
Nel blocco 20 vi è la sala degli interventi dove migliaia di persone furono uccise con un’iniezione di fenolo nel cuore.
Proseguendo a piedi per il campo si raggiunge la piazza dell’appello. Qui i prigionieri si disponevano mattino e sera. Al rientro dai lavori forzati, i vivi dovevano riportare nel campo i corpi dei morti per provare che nessuno fosse scappato. L’appello poteva durare ore e spesso mieteva vittime. Vicino sorge il patibolo collettivo dove venivano eseguite le condanne a morte per impiccagione, di solito durante gli appelli quotidiani per incutere terrore. Il giro di Auschwitz I termina con un sopralluogo ad una camera a gas e a un crematorio. Uscendo dal campo di intravede la forca dove nell’aprile del 1947 venne eseguita la sentenza del Tribunale supremo nazionale polacco che prevedeva la morte per impiccagione per il capo SS di Auschwitz, Rudolf Höss
Auschwitz II – Birkenau sorge nei pressi del paesino polacco di Brzezinka (che significa bosco di betulle) a 3 chilometri circa da Oświęcim. Si estende a perdita d’occhio su un’area di 175 ettari recintata da filo spinato e torrette di guardia. Divenne il più grande centro di sterminio degli ebrei e il più grande campo di concentramento nazista per prigionieri di diverse nazionalità. Qui dal maggio del 1944 giungevano sul binario morto i convogli ferroviari con i deportati. La maggior parte dei nuovi arrivati veniva ritenuta dai medici delle SS inabile al lavoro e uccisa il giorno stesso nelle camere a gas dotate di ascensori che portavano i corpi direttamente nei crematori. Le ceneri venivano usate come fertilizzante. La vita media qui si aggirava intorno ai 5 mesi, Il campo era diviso in diverse sezioni e arrivò ad ospitare 100.000 internati sorvegliati da 4.000 soldati e 100 ufficiali. A Birkenau furono erette baracche in mattoni rossi e baracche in legno (semplici stalle prefabbricate per cavalli). Birkenau fu per buona parte distrutto dai nazisti in ritirata, ma quel che resta rende ancora bene l’idea dell’orrore.
Camminando ci si imbatte in sei vasche per la raccolta delle acque piovane: il campo era coperto da una regolare polizza assicurativa. E la compagnia di assicurazione chiese che venissero costruite 6 vasche con una capacità minima di 100 metri cubi per conservare le acque che dovevano servire a spegnere i probabili incendi, vista la presenza di numerose baracche in legno.
La nostra guida ci racconta che anche la Croce Rossa visitò Birkenau senza però rendersi pienamente conto dell’orrore che qui albergava.
Entro in una baracca in mattoni: ogni costruzione era destinata ad accogliere 700 persone su 60 panche in legno disposte su tre livelli. I 180 giacigli ospitavano 4-5 persone che si riparavano dal freddo e dall’umidità con paglia e qualche coperta.
Auschwitz III – Monowitz non è al momento aperto al pubblico.
Al termine della visita viene difficile parlare. Su un muro leggo “Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo (George Santayana)”. Già.
L’uomo, tutti gli uomini racchiudono dentro di sé, al tempo stesso, profondi abissi e altissime vette. Se questa orribile storia l’avessi vissuta, avrei capito? Sarei stata una carnefice? Ma questa storia si ripete ancora oggi, in altre forme e in altri luoghi.
Cosa si può quindi fare? Dovremmo circondarci di bellezza per arrivare a scalare le vette più alte del nostro animo, quotidianamente dobbiamo allontanarci dai nostri mostri interiori, smettere di nutrirli. E ricordarci di sviluppare un senso critico. La pace è un esercizio faticoso e costante, come la pazienza. Esercitiamoci a disinnescare tensioni al lavoro o a casa, ricordiamoci di farci veicolo di bellezza e di contagiare chi ci circonda. Probabilmente è una soluzione troppo semplice, ma da qualcosa individualmente si deve partire.
Nel tardo pomeriggio, al ritorno a Cracovia, vado a ristorare l’anima al Museo Nazionale dove è esposta la celebre tela di Leonardo da Vinci, La dama con l’ermellino.
Mi fermo a lungo ad ammirare il ritratto di Cecilia Gallerani. Sento la speranza albergare nuovamente nell’anima. La fitta che ho avvertito questa mattina si fa meno forte. La stessa umanità che ha prodotto i campi di sterminio ha creato un capolavoro senza tempo. Rimane la possibilità di scegliere cosa vogliamo diventare. Una decisione faticosa da rinnovare ogni giorno. Per nutrire la mia parte nobile e provare ad affamare il mio mostro interiore, concludo questa giornata ascoltando il Notturno opera 27 numero 2 di Frédéric Chopin, uno dei figli illustri di questa bella Polonia. Il brano preferito da mio marito.