Varanasi è adagiata sulla sponda occidentale del fiume Gange e qui si estende per chilometri. Dalla riva del Gange i viaggiatori devono arrampicarsi su ripide scalinate, i ghat, per raggiungere un labirinto di vicoli, angusti e bui, che formano il cuore antico della città. Il lato opposto del fiume è una lunga spiaggia di sabbia bianca, spoglia, non edificata. Il sole del mattino svela un lungofiume di palazzi storici decadenti e costruzioni fatiscenti, illumina alberi le cui radici spezzano il terreno, scalinate irregolari e un’umanità colorata, già operosa. Le viscere della città sembrano inghiottire i viandanti: si dipanano in un dedalo di vie minuscole, gali, dal selciato irregolare, troppo strette per permettere il passaggio di automobili, dove le immondizie sono abbandonate a terra, le vacche bivaccano ad intralciare la via e poi il buio, i negozi, i vivi che camminano veloci, i morti che vagano, gli dei che abitano nelle nicchie votive. Se vi sentite persi, alzate gli occhi e controllate che sopra di voi, oltre i grovigli di fili elettrici su cui saltano le scimmie, ci sia ancora il cielo. Varanasi è sporca, ladra, bugiarda, maleodorante, difficile, chiassosa, eppure non può lasciare indifferenti. Se non suscita in voi un immediato e forse giustifato sentimento di repulsione, è molto probabile che vi affascinerà e che diventi uno dei vostri luoghi del cuore.
Varanasi è tra i centri abitati più antichi del mondo. I primi insediamenti risalgano al 1200 a.C. Nel tempo ha avuto molti nomi: è stata Kashi la luminosa, Anandavana la foresta di beatitudini, Avimukta la mai abbandonata, Benares o Banares al tempo del colonialismo inglese e oggi Varanasi, che forse indica la sua collocazione geografica sul fiume Gange delimitato dai suoi due affluenti, il fiume Varana a nord e a sud il rigagnolo Assi. Nell’immaginario collettivo è il luogo dell’altrove, dove risiede Shiva e dove vita e morte coabitano. E’ uno dei siti più sacri dell’India per gli Hindu, dimora di asceti che percorrono vie estreme di rinuncia e meta costante di pellegrini che qui compiono rituali antichi e fanno generose donazioni alle istituzioni religiose nella speranza di ottenere meriti spirituali per una rinascita migliore nella prossima vita. Gli Hindu scendono i ghat per andare a lavare i peccati terreni nelle acque di Ganga o per cremare i loro cari.
Abitata dai bhut, spiriti dannati che vagano alla ricerca di un po’ di pace e che interagiscono spesso in modo molesto con i vivi, Varanasi è il luogo dove mondi diversi si incontrano: vivi, morti, antenati, guardiani, dei, spiriti camminano tra le sue strade. Dopo la cremazione gli spiriti dei morti attraversano una fase intermedia prima di entrare nel mondo degli antenati: in questo periodo vagano e possono rimanere attaccati ai vivi, se i riti funebri non sono stati eseguiti secondo tradizione. Chi invece ha sperimentato una morte prematura o violenta rimane impigliato in una dimensione di mezzo e non riesce a trovare pace. Questi spiriti spesso sfogano rabbia, insoddisfazione, ora gelosia contro i vivi che devono propiziarseli attraverso offerte per tentare di pacificarli. E così donne morte prematuramente o immolate sulla pira funeraria del marito, morti ammazzati, eroi locali diventano, se pacificati, custodi dell’area dove hanno vissuto, vegliando infine sui vivi. Li troverete in piccoli santuari ai crocicchi delle strade. Fateci caso.
La vita spirituale di Varanasi ruota intorno ai suoi 80 ghat, la maggior parte dei quali è usata per scendere sulla riva del Gange e bagnarsi, ma ci sono anche diversi ghat funerari dove i cadaveri vengono cremati in pubblico. Il principale è quello di Manikarnika. Il momento migliore per visitare i ghat è l’alba: si potrà osservare una bella mescolanza di genti che va al Gange per il bagno rituale, per fare yoga insieme, per lavare i vestiti, per acquistare fiori o fare il bagno ai bufali, per farsi fare un massaggio o giocare a cricket o ancora per fare l’elemosina ai mendicanti per far progredire il proprio karma. Un’escursione in barca lungo il fiume è il modo migliore per approcciarsi alla città.
Il Manikarnika ghat è il luogo più propizio dove ogni buon Hindu vorrebbe essere cremato. I cadaveri vengono presi in custodia da un gruppo di dom, intoccabili, e portati in processione su una barella di bambù ricoperta da un sudario tra le vie della città, fino alle sacre acque di Ganga. I corpi vengono immersi nelle acque del fiume e poi portati alla cima del ghat, impilati in cataste di legna da ardere e cremati. Ogni tipo di legno ha un costo diverso, quello più pregiato è il sandalo. Saper utilizzare la giusta quantità di legna per cremare i corpi è considerata una vera e propria arte. Si può assistere alla cremazione, ma è vietato scattare fotografie. Verrete probabilmente avvicinati da un sacerdote che si offrirà di condurvi in un posto migliore da cui assistere alle cremazione. Non seguitelo, se non siete disposti a lasciare una mancia. L’Assi Ghat, a sud dei ghat principali, è un buon posto dove osservare le puja (preghiere o offerte) al sole che sorge al mattino, mentre il Dasaswamedh Gath è molto suggestivo al tramonto poiché qui ha luogo la cerimonia del Ganga Aarti, l’adorazione del fiume. Non mancate di visitare il Vishwanath temple, il tempio d’oro, il più popolare tra i templi cittadini dedicati a Shiva con i suoi 800 chili d’oro a ricoprire la torre e la cupola.
La morte è un affare reale qui, quasi la si può sperimentare da vivi. Varanasi è la promessa della liberazione dal ciclo di morte, reincarnazione e rinascita e attira fedeli da ogni angolo del paese. Se qui esalerai il tuo ultimo respiro o se qui verrai anche solo cremato, Shiva il traghettatore verrà a sussurrare al tuo orecchio la formula segreta per la liberazione. E così un’umanità varia, malata, acciaccata viene qui a morire, nella speranza di non rinascere più in questo mondo. Il fuoco arde sempre e le ceneri dei morti vengono disperse nell’aria e tra le acque di Ganga, senza sosta. Fermatevi a bere un chay bollente, il dolcissimo tè nero con latte, profumato da zenzero, cannella, pepe nero e cardamomo. Lasciate che questa città vi parli. Varanasi non è la stessa per me e per voi e probabilmente non vi dirà le stesse cose in fasi diverse della vostra vita. Come tutti i luoghi che hanno qualcosa da dire, non risponde a nessuna domanda, ma sa sollevare nuovi interrogativi. Me ne sono andata delusa, cercavo una risposta che non ho trovato. Un anno dopo so che la risposta è una domanda nuova.
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Trekking nel parco nazionale di Horton Plains
Il Parco Nazionale di Horton Plains è un’area protetta nella regione della Hill Country, nel cuore dello Sri Lanka. Questo plateau è un altopiano ondulato situato a un altitudine compresa tra i 2.100 e i 2.300 metri s.l.m. All’orizzonte si scorgono il Kirigalpotta (2.395 mt) e il Totapola (2.357 mt), rispettivamente la seconda e la terza cima dell’isola per altitudine.
Ricoperte da vaste praterie intervallate a tratti da fitta foresta pluviale, formazioni rocciose, cascate e laghi, le Horton Plains si estendono su un’area di oltre 31 kmq. Vantano una ricchezza di flora e fauna pressoché unica e sono l’habitat naturale di alcune specie animali e vegetali endemiche del posto. Le aree pianeggianti sono caratterizzate da grandi cespugli di trebbia dello Sri Lanka, mentre le zone paludose sono ricoperte da spessi strati di muschio. Numerosissimi sono i calofilli, alberi con una caratteristica chioma ad ombrello e fiori bianchi, e i rododendri arborei con i loro fiori di un rosso sanguigno.
La diversità di paesaggio va a braccetto con una ricca varietà faunistica. Nel parco vivono leopardi, cervi sambar e cinghiali, difficili però da avvistare di giorno. L’area è frequentata da molti appassionati di birdwatching poiché è possibile avvistare diverse specie endemiche.
Questo parco è stato dichiarato area protetta nel 1988 ed è uno dei pochi parchi nazionali dello Sri Lanka dove i visitatori possono girare senza una guida, seguendo tuttavia percorsi tracciati obbligatori dai quali è vietato allontanarsi. Accedendo dal Visitor Center, si passa attraverso un severo controllo dei propri averi. Tutte le borse e gli zaini saranno aperti e ispezionati con cura e la plastica buttata via e sostituita, dove possibile, con involucri in carta. Gli oggetti considerati incompatibili con la visita del parco saranno trattenuti all’ingresso e restituiti solo all’uscita.
Immediatamente oltrepassato il visitor center, parte un circuito ad anello di 9.5 chilometri che attraversa parte dell’altopiano. Ci vorranno circa 3 ore per completare il trekking. Le Horton Plains terminano bruscamente all’altezza del World’s End, un’incredibile scarpata (senza barriere di protezione!) che si apre su un dirupo di 880 metri. La vista sulla vallata è incredibile, ma è necessario arrivare qui prima delle 9 di mattina. Se tarderete, avrete ottime probabilità di contemplare solo un muro grigio di nebbia. Il tempo cambia in fretta e nubi e foschia possono palesarsi all’improvviso. Il circuito prosegue fino alle Baker’s Falls per ricondurvi poi all’ingresso.
Questo sito è di una bellezza mozzafiato e permetterà ai viandanti di immergersi nella natura ancora incontaminata e di goderne appieno. La serenità risiede nelle piccole cose, si nutre di silenzio ed è più facile da incontrare in mezzo a praterie e foreste. La natura è una cura per l’anima e un ottimo riequlibratore di priorità ed energie. Così impermanente, eterna, senza confini, di nessuno eppure di tutti, ci ricorda della nostra temporaneità, mentre parla di eternità alla nostra anima. Qui più che altrove è un dovere essere pellegrini, amanti rispettosi del luogo che non lasciano traccia del loro passaggio. Le Horton Plains lasceranno invece una traccia di serena felicità in chi le visita.
Alcune informazioni pratiche: le Horton Plains sono visitabili con una gita di un giorno se fate base a Ohiya (ca 10 chilometri), Nuwara Eliya (ca 30 chilometri) o Ella (ca 50 chilometri). Il mezzo di trasporto più comodo ed economico è il tuk tuk. Contrattate la tariffa in anticipo.
Foto di Emiliano Allocco (Clicca qui e vedi altre foto di Emiliano su Flickr)
Sri Pada, dove le religioni si incontrano. Storia, leggenda e poesia di un’orma alle porte del paradiso.
Nel cuore della verdeggiante e suggestiva Hill Country, nel centro sud dello Sri Lanka, con i suoi 2.243 metri di altezza svetta imponente lo Sri Pada. Questa montagna è conosciuta con vari nomi: in inglese Adam’s Peak (il “picco di Adamo”), in sanscrito Sri Pada (“la sacra orma del Buddha”) o Samanalakande in singalese (la “montagna delle farfalle” dove queste creature si recano a morire). Da oltre 1.000 anni rappresenta un luogo di pace dove le principali religioni si incontrano: è meta di pellegrinaggi per buddisti, cristiani, musulmani e induisti. Sulla sulla sommità, sorge un bel monastero all’interno del quale è conservata una grande orma di un piede sinistro (1,8 metri), lasciata su una pietra. I buddisti credono che sia l’ultima impronta terrena del Buddha durante la sua ascesa in paradiso. Per i cristiani qui Adamo mise per la prima volta piede sulla terra dopo la cacciata dall’Eden, mentre gli induisti la venerano come l’impronta del dio Shiva Adipadham. Altre leggende narrano che questo sia invece il calco del piede di San Tommaso, il primo apostolo a giungere in India e a introdurre il cristianesimo in Asia. Lo Sri Pada è descritto anche da Marco Polo ne Il Milione e ne conferma la tradizione e l’importanza come luogo di culto e pellegrinaggio:
“E sí vi dico che gl’idolatori dalle più lontane parte vi vengono in pelligrinaggio, siccome vanno i cristiani a San Iacopo in Galizia. Ma i saracini che vi vengo in peligrinaggio, dicono ch’è pure il munimento d’Adamo; ma, secondo che dice la Santa Iscrittura, il munimento d’Adamo si è in altra parte”.
La stagione dei pellegrinaggi prende avvio in dicembre nel giorno di plenilunio (poya) e si protrae sino alla festa di Verak in maggio. Durante questi mesi, un flusso costante di fedeli e turisti si inerpica su per le pendici del monte. E’ piuttosto comune l’ascesa in notturna per poter giungere al monastero prima del’alba e godere della meraviglia del sole che sorge sulla valle. Durante questo tempo, il sentiero è illuminato e vi sono numerose bancarelle che vendono cibo, bevande, coperte e cappelli di lana ai viandanti. Si può iniziare la salita da Dalhousie: il percorso fino in cima è lungo 7 chilometri e contempla un dislivello di 1.000 metri. Quasi tutta l’ascesa si dipana su gradini (oltre 5.200!) in pietra o muratura, irregolari e alti. Durante il giorno il sentiero è per buona parte sotto il sole cocente. Abbiate cura di portare con voi una crema solare, abiti a maniche lunghe e un cappello. Mio marito ed io abbiamo impiegato 3 ore e mezza a salire e un’ora e mezza a scendere, fermandoci a pranzare e a riposare diverse volte lungo il tragitto.
Se volete acquisire maggiori meriti spirituali, potete partire da Ratnapura e affrontare una salita più lunga e sfiancante, ma altrettanto ben segnalata ed illuminata.
Il tempio buddhista sulla cima è un luogo di grande fascino e spiritualità. Potrete colpire il batacchio della campana al vostro arrivo e offrire al cielo le intenzioni che avrete maturato durante il tempo di ascesa. Dalla cima si gode di una vista sconfinata sulla valle.
La nostra storia però è stata differente: dopo essere saliti da Dalhousie per oltre 3 ore sotto un sole impietoso e bollente che non ci ha concesso tregua, siamo stati raggiunti da una nube (la prima della giornata!) mentre ci arrampicavamo, esausti, sugli ultimi gradini. Una coltre grigia, impenetrabile, è stato il paesaggio che abbiamo potuto ammirare dalla vetta. Una beffa in piena regola o più probabilmente un cattivo karma! Dopo la delusione iniziale, forse ora posso scrivere che non è stato poi male rimanere, per un po’ di tempo, isolati dal mondo, tra le nuvole, a due passi dal paradiso. Se dovesse esserci una seconda occasione per noi di arrampicarci sullo Sri Pada, avremo cura di partire da Ratnapura nella speranza di acquisire meriti sufficienti e godere così della vista sulla valle!
Foto di Emiliano Allocco (Vedi altre foto di Emiliano su Flickr)
Immersi nella natura: a giro tra i meravigliosi paesaggi carsici di Vang Vieng
Abbiamo lasciato la calma Vientiane e ci siamo diretti verso Vang Vieng. Durante il viaggio in bus, non riuscirete a fare a meno di ammirare i paesaggi naturali ancora incontaminati che faranno capolino dal finestrino, Vi perderete ad osservare un bambino che corre dietro a una vacca che passeggia libera per strada o assisterete con interesse a una contrattazione alle bancarelle che affollano le strade. Quanta vita che scorrerà dinnanzi ai vostri occhi.
All’improvviso un paesaggio rurale raffinato e antico catturerà la vostra attenzione. Avvolta da risaie a perdita d’occhio, bagnata dal Nam Song e circondata da pittoresche rocce calcaree, ecco palesarsi a voi Vang Vieng. La città di per sé è senza fascino alcuno: il miraggio di un facile turismo di massa non ha lasciato spazio a uno sviluppo urbano ragionevole e sostenibile. La corsa a costruire l’albergo più alto che garantisca ai turisti la miglior veduta del tramonto sul Nam Song ha fatto danni forse irreparabili. Ma non perdetevi d’animo. Al di là del fiume si apre per voi un meraviglioso spettacolo della natura. Vang Vieng è un vero e proprio paradiso in terra per gli amanti dello sport. Qui potrete dedicarvi al kayaking o al tubing sul Nam Song, fare lunghi trekking tra le risaie, esplorare meravigliose grotte naturali, arrampicarvi sulle pareti di roccia calcarea, attraversare un ponte tibetano o lanciarvi appesi a una zip-line, osservare il paesaggio dall’alto a bordo di una mongolfiera o ancora fare lunghe escursioni in mountain bike.
Oppure non fate assolutamente nulla! Semplicemente lasciatevi rapire dalla bellezza della natura e ritrovate la pace dell’anima. Non male come programma alternativo. Qualunque attività sceglierete di intraprendere, fatelo con il dovuto rispetto verso il luogo, i suoi abitanti e voi stessi. Fino a non molto tempo fa, Vang Vieng era una delle celebri capitali del divertimento sfrenato nel sud-est asiatico. Qui accorrevano giovani da tutto il mondo e fu un fiorire di rave bars lungo il Nam Song, festini sempre più spinti e droghe sempre più pesanti. Nel 2011, 25 giovani persero la vita a seguito di infarto, annegamento o per incidenti vari causati da zip-line costruite senza tenere conto di basici parametri di sicurezza. Nel 2012 il governo laotiano impose la chiusura dei rave bars e una seria operazione d bonifica venne portata a termine. Lentamente Vang Vieng sta tornando a fiorire come paradiso naturale.
Cos’è il tubing? Questo “sport” prevede di lanciarsi sui corsi d’acqua comodamente sprofondati in una camera d’aria di un pneumatico di un trattore. Stranezze d’Oriente! Attenzione alle correnti del fiume.
Le grotte (tàm) nei dintorni di Vang Vieng sono spettacolari, ma possono essere pericolose perché molto buie, profonde e scivolose. È estremamente facile perdere l’orientamento una volta dentro. Visitatele accompagnati da una guida locale e muniti di una torcia. Meglio averne una seconda di scorta o batterie di riserva. Non mancate di visitare le grotte più celebri della zona per bellezza:
– Tham Nam: si estende per 500 metri e dal suo ingresso inferiore sgorga un corso d’acqua che più a valle affluirà nel Nam Song;
– Tham Jang: questa grotta all’inizio del XIX secolo venne usata dai locali come rifugio contro i predoni cinesi giunti dallo Yunnan;
– Tham Hoi: una grande statua del Buddha sorveglia l’accesso a questa caverna che si narra si estenda per oltre 3 chilometri e ospiti un lago sotterraneo nelle sue profondità;
– Tham Loup: priva di segni di attività umane, è il luogo ideale dove ammirare alcune stalattiti di pregio;
– Tham Phu Kham: questa grotta, sacra per i laotiani, deve la sua notorietà alla sua splendida laguna (la Blue Lagoon) le cui acque verde-blu sono un invito irresistibile a tuffarsi.
Foto di Emiliano Allocco (vedi le foto di Emiliano su Flickr)