Trieste, la Risiera di San Sabba

Quante vite può avere un luogo? Questa è la storia di un opificio edificato in origine per la lavorazione e la trasformazione del riso e trasformato, suo malgrado, prima in una caserma militare e poi in un campo nazista di detenzione e di polizia. Queste mura ospitano oggi un museo che vuole conservare la memoria di quel che è stato, restituire dignità a chi qui incontrò paura e morte e tramandare ai posteri la sua storia perché quel che fu non sia più.
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Nel febbraio del 1898 la locale società di Pilatura del riso del Litorale acquistò i terreni del rione di San Sabba, nella periferia di Trieste, per edificarvi un insieme di edifici destinati alla lavorazione del riso. L’opificio rimase in attività fino ai primi anni ‘30 e dopo il 1940 fu convertito in una caserma militare. In seguito all’occupazione del territorio da parte delle forze tedesche, l’ex opificio fu utilizzato prima come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 per essere poi trasformato nel Polizeihaftlager della Risiera di San Sabba, un campo di detenzione e di polizia. Dopo la fine della seconda guerra mondiale e fino al 1965, la Risiera divenne un campo di raccolta per i profughi in fuga dai paesi al di là della cortina di ferro. Il 15 aprile 1965 l’allora Presidente della Repubblica italiana Giuseppe Saragat dichiarò la Risiera di San Sabba monumento nazionale per la sua rilevanza storica e politica, consegnandola ai posteri e alla Storia come luogo della memoria legato alle vicende dell’occupazione nazista d’Italia.
La Risiera fu uno dei quattro Polizeihaftlager italiani insieme a FossoliBorgo San DalmazzoBolzano, ma fu l’unico dotato di un forno crematorio. La sua complessa realtà emerge dall’inchiesta giudiziaria svolta all’epoca del processo celebrato nel 1976. Nella sentenza che ne seguì si afferma che il Lager della Risiera di San Sabba fu per le vittime della persecuzione razziale quasi esclusivamente un campo di transito, mentre rappresentò un carcere o il braccio della morte per le vittime della persecuzione politica o per chi si macchiò di crimini di guerra. I nazisti lo usarono inoltre come centro per la predisposizione di azioni militari e di rastrellamento. Chi era destinato alla deportazione veniva trasportato per mezzo di autocarri telonati alla Stazione centrale di Trieste da dove partivano i treni diretti in Polonia o in Germania.

Quante persone
trovarono la morte nel Polizeihaftlager della Risiera
Le ricerche storiche non permettono ad oggi di fornire un dato preciso. In sede di processo (1976) si ipotizzarono “non meno di 2.000 vittime”, ma alcuni storici stimano tra i 4.000 e i 5.000 morti. Le esecuzioni avvenivano solitamente di notte. Le SS e i militari ucraini al loro soldo erano gli addetti alle soppressioni che avvenivano per impiccagione, fucilazione, gassazione o tramite colpi di mazza. E’ certo che qui furono massacrati circa 25 ebrei poiché considerati incapaci di affrontare il viaggio di deportazione.

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Il processo²
Il processo per i crimini commessi tra le mura della Risiera si svolse tra il 16 febbraio e il 28 aprile 1976 presso la Corte d’Assise di Trieste dopo un lunghissimo e travagliato iter giudiziario iniziato 30 anni prima. 174 testimoni, 2 imputati per omicidio plurimo pluriaggravato continuato: August Dietrich Allers e Josef Oberhauser. I reati di omicidio contro partigiani ed esponenti politici della Resistenza furono esclusi dai capi di imputazione perché motivati dalle leggi di guerra. Il 29 aprile 1976 Josef Oberhauser fu condannato all’ergastolo, ma non scontò la pena perché l’estradizione non fu autorizzata. August Dietrich Allers morì prima che il processo cominciasse. Fu tutto inutile? Probabilmente no, perché il processo permise di fare luce su quel che avvenne in questo Polizeihaftlager.

La Risiera di San Sabba oggi³

Il Museo della Resistenza della Risiera di San Sabba nasce dal progetto dell’architetto triestino Romano Boico (1910 – 1975): “Eliminati gli edifici in rovina ho perimetrato il contesto con mura cementizie alte undici metri, articolate in modo da configurare un ingresso inquietante. Il cortile cintato si identifica, nell’intenzione, quale una basilica a cielo libero. L’edificio dei prigionieri è completamente svuotato e le strutture lignee scarnite di quel tanto che è parso necessario. Inalterate le diciassette celle e quella della morte. Nel cortile un terribile percorso in acciaio, leggermente incassato: l’impronta del forno, del canale del fumo e della base del camino“.

Qualche informazione utile
Orario di visita: tutti i giorni dalle 9-17. Ingresso gratuito.
Dove: Via Giovanni Palatucci, 5 – Trieste.
T. +39 040 826202
risierasansabba@comune.trieste.it
Come arrivare: Go Green! Autobus 8 e 10
Per maggiori informazioni: https://risierasansabba.it

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Fonte: La Risiera di San Sabba, Edizioni Civici musei di storia ed arte, Comune di Trieste, 2016, ISBN 978-88-87377-62-0
Foto di Emiliano Allocco (clicca qui per vedere altre foto)

¹ La Risiera di San Sabba, Edizioni Civici musei di storia ed arte, Comune di Trieste, 2016, pag. 22
² La Risiera di San Sabba, Edizioni Civici musei di storia ed arte, Comune di Trieste, 2016, pag. 40
³ La Risiera di San Sabba, Edizioni Civici musei di storia ed arte, Comune di Trieste, 2016, pag. 41
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Le favole di Auschwitz, quando la bellezza sboccia inaspettata per resistere all’orrore

La bellezza che sa sbocciare anche in mezzo all’orrore, inaspettatamente, è una forma di resistenza alla realtà, un fiore raro e quindi prezioso. E’ il manifestarsi dell’umanità nella sua forma più alta. Ogni volta che un lampo di bellezza sfregia il buio attorno, la speranza ritorna. Ogni qualvolta che accade, l’uomo si fa eterno e immenso per un istante.
E la bellezza, struggente delicata e inattesa, ha saputo fiorire anche ad Auschwitz, un luogo malvagio e disumano.
Le favole di Auschwitz (2009) è un volume edito dal Museo Statale di Auschwitz-Birkenau a cura di Mariusz Banachowicz e Jadwiga Pinderska-Lech. Il volume è disponibile, dal 2017, anche in lingua italiana e racconta una storia meravigliosa.
Le favole qui raccolte sono il frutto dell’opera illegale di alcuni prigionieri polacchi che lavoravano negli uffici del cosiddetto Bauleitung, l’amministrazione edilizia del lager dove venivano vagliati i piani di ampliamento del campo.
Con ogni probabilità nel 1942 qualche prigioniero introdusse nell’ufficio dei libricini colorati per bambini in lingua ceca, rinvenuti nei magazzini Kanada dove venivano ammucchiati gli averi depredati ai prigionieri. Il fatto che questi libercoli fossero appartenuti a bambini uccisi nelle camere a gas sconvolse i prigionieri. L’innocenza delle favole strideva con l’orrore del campo. Il pensiero andò inevitabilmente ai figli che avevano lasciato a casa, la nostalgia si unì al timore di non rivederli mai più. Da questo mix di emozioni nacque l’idea di scrivere nuove favole, di corredarle di illustrazioni e di farle avere, in qualche modo, alle proprie famiglie. Alla realizzazione delle favole presero parte almeno 27 prigionieri. Avendo accesso ai colori, alla carta copiativa e ai fogli, i prigionieri decisero di ricreare le storie cece adattandole alla tradizione polacca. I compiti erano così divisi: alcuni traducevano le fiabe dal ceco al polacco, altri ne inventavano di nuove, c’era poi chi le vergava in bella grafia, chi era addetto alle illustrazioni, chi a cucire e formare i libretti e chi faceva da palo. Tali procedure erano vietate. Essere scoperti significava andare incontro a punizioni severe e probabilmente alla morte.
Vennero realizzate una cinquantina di copie delle favole. I libricini, una volta ultimati, veniva condotti all’esterno degli uffici e consegnati ai fidati lavoratori civili con i quali i prigionieri entravano in contatto durante l’orario di lavoro. Questi ultimi provvedevano poi a recapitarli agli indirizzi segnalati.
Tra le favole raccolte nel volume vi sono:

  • La favola del leprotto, la volpe e il galletto, trasmessa da Bernard Swiercyna al figlio Felicjan, nato dopo il suo internamento ad Auschwitz, venne trasportata da un ufficiale delle SS con ogni probabilità mascherata all’interno di un dizionario di lingua tedesca;
  • La favole sulle avventure del pulcino nero, illustrata ad Auschwitz da Henryk Czulda per il figlio Zhyszek a cui pervenne dopo essere transitata in 5 diversi campi di concentramento;
  • Il gigante egoista, ispirata alla fiaba The selfish Giant di Oscar Wilde;
  • Le nozze nel villaggio delle grandi vespe
  • I racconti del gatto erudito
  • Di tutto ciò che vive

Ho letto queste favole la scorsa settimana, ogni sera un racconto, proprio prima di dormire. Sono colme di speranza, malinconia e valori importanti. Sono di una bellezza struggente, le illustrazioni curate e dettagliate.
Il volume è una testimonianza preziosa che permette ai racconti di giungere nelle mani delle generazioni future. Il ricavato della vendita del libro è destinato alla conservazione della baracca dei bambini e degli oggetti legati alla permanenza degli stessi nel campo di Auschwitz.
Riporto di seguito un estratto da Di tutto ciò che vive:

A mio figlio 

Non conto i pensieri che verso te migrano
Piccolo amico mio, figlio lontano

Si potrebbero forse contare le onde che cullano
Di continuo una nave in un battibaleno?

A te penso come a un fresco mattino
Di tanto tempo fa dove di pini v’era una foresta
Ricordo stradine e sentieri, tracce del nostro comune cammino
E le parole simili allo scatto di una bianca colomba che a volare s’appresta

E la tua anima, figliolo, rammento
Che mai dall’infamia è stata macchiata
E i giorni delle tue emozioni e del tuo sentimento
Son per me ricordi di un’aurea ballata

Ahimè, non comprenderai forse questi discorsi confusi
Tutto ti canta di questi suoni la melodia
Ed essi sono nel mio cuore racchiusi
Quanta tristezza e nei suoi soffi la malinconia

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La borsa della preghiera

C’è una storia delicata che unisce un padre e un figlio, un filo rosso lungo 60 anni, un cerchio che si chiude e che sa di riscatto. Racconto questa storia perché credo debba sopravvivere all’oblio del tempo ed essere condivisa.
Quando si entra a Birkenau, appena oltrepassato il cancello della morte, non si può fare a meno di notare il binario cieco su cui viaggiavano i treni che qui trasportavano ebrei e deportati da tutta Europa. Un vagone si staglia all’orizzonte. Fu costruito in Germania all’inizio del XX secolo per il trasporto merci, ma durante gli anni bui della seconda guerra mondiale fu usato per condurre migliaia di uomini, donne e bambini, stipati e ammassati in condizioni igieniche precarie e provenienti principalmente dall’Ungheria, in questo campo di concentramento e stermini.
Così giunse a Birkenau nel maggio del 1944 anche Hugo Lowy, un ebreo ungherese padre di famiglia. Appena sceso dal treno, gli fu intimato di abbandonare sulla banchina tutto quel che aveva portato con sé. Hugo oppose un fermo rifiuto: non era disposto a separarsi dalla sua borsa della preghiera dove custodiva il tallit (lo scialle di preghiera) e il tefillin (i filatteri). Per questa ragione fu brutalmente ucciso dai soldati nazisti, proprio dinnanzi al treno. Ai tempi il più giovane dei figli di Hugo, Frank, aveva appena 13 anni.
Fu Frank a farsi carico di cercare, restaurare e condurre a Birkenau il vagone originale usato dai nazisti per il trasporto degli ebrei ungheresi. Il vagone giunse qui nel settembre del 2009. Nell’aprile dell’anno successivo, durante una cerimonia ufficiale, venne donato da Frank al Museo statale di Auschwitz-Birkenau e dedicato a tutti coloro che in questo luogo trovarono la morte. 66 anni erano passati da quando i nazisti avevano ucciso suo padre. Frank portò con sé la propria borsa della preghiera. Insieme al fratello Sanyi, entrò nel vagone e la depose.
Il vagone fu poi sigillato. Conserva al suo interno il ricordo di Hugo e di tutte le anime che viaggiarono verso la morte.
“Abbiamo un vagone – ha dichiarato Frank nel 20 – che simboleggia la sofferenza e la deportazioni degli ebrei di Ungheria. Mio padre era tra loro. Venne brutalmente assassinato subito dopo il suo arrivo, appena qualche metro più in là di dove ci troviamo ora. E’ un momento molto toccante, ma per me rappresenta la chiusura di un cerchio. Avevo 13 anni quando persi mio padre. Oggi ne ho 80″.

Se vi interessa leggere un resoconto della mia visita ad Auschwitz, trovate qui il link: https://agiroergosum.wordpress.com/2017/06/17/auschwitz-e-arte-abissi-e-vette-dellanimo-umano/

(Ph Emiliano Allocco)

Il “gentile” Tadeusz Pankiewicz: storia di un giusto e della sua Farmacia sotto l’Aquila

Probabilmente molti di noi conoscono la storia di Oskar Schindler, resa celebre dal film Schindler’s List di Stephen Spielberg (1993) e vincitore di due premi Oscar. Meno conosciuta ma altrettanto degna di essere raccontata e tramandata è la storia del “gentile” Tadeusz Pankiewicz e della sua Farmacia sotto l’Aquila (Apoteka Pod Orlem).
Sul lato meridionale di Plac Bohaterów Getta a Cracovia sorge questa farmacia, oggi non più in servizio e trasformata in un piccolo e delizioso museo. Gli interni sono stati squisitamente restaurati e la farmacia conserva l’aspetto che aveva durante gli anni della seconda guerra mondiale. Qui lavoravano il cattolico polacco Tadeusz Pankiewicz e le sue tre collaboratrici: Irene Drozdikowska, Helena Krywaniuk e Aurelia Danek-Czortowa.
Era il 3 marzo 1941 quando a Cracovia venne ufficialmente creato un ghetto per gli ebrei, completamente isolato da alte mura di cinta. In quel periodo nell’area scelta operavano 4 farmacie di proprietà di non ebrei. Tadeusz si rifiutò di trasferire la sua attività nella parte ariana della città. Riuscì a convincere le autorità del Terzo Reich  a rilasciargli un permesso per continuare ad operare e a soggiornare nel ghetto. Ottenne inoltre la concessione di un lascia-passare per entrare e uscire dall’area.
Durante gli anni bui e terribili della guerra, insieme ad Helena Irene e Aurelia, molto si spese per salvare vite umane: sopperì alla penuria di farmici nel ghetto, curò gli ammalati, diede rifugio ad amici e sconosciuti, creò una botola segreta atta alla conservazione della torah e di altri oggetti sacri, si procurò tinture per capelli per aiutare coloro che dovevano mascherare la propria identità e tranquillanti da somministrare ai bambini durante le frequenti incursioni della Gestapo, fece da ponte per messaggi e comunicazioni segrete tra il ghetto e l’esterno.
La situazione peggiorò ulteriormente nel 1942 quando i nazisti iniziarono a deportare sistematicamente gli ebrei nei campi di concentramento circostanti. Durante i sempre più frequenti rastrellamenti, i nazisti prelevarono anche Tadeusz, ma grazie all’intervento di un ufficiale riuscì a salvarsi. Nel 1943 il ghetto venne diviso in due aree, A e B, e le condizioni di vita degli ebrei peggiorarono ancora. La distribuzione di cibo e farmaci si fece sempre più ardua.
Nello stesso anno le autorità diedero mandato di chiudere la Farmacia sotto l’Aquila. Tadeusz ingaggiò una corsa contro il tempo e riuscì a procurarsi, con molta fatica e qualche dono sapientemente distribuito, i documenti necessari per continuare a tenere aperto il suo esercizio.
Nel marzo 1943 i nazisti operarono la liquidazione finale del ghetto: 8.000 ebrei vennero deportati e 2.000 ebrei, considerati inabili al lavoro, vennero trucidati in loco. Anche in questa occasione Tadeusz si prodigò per offrire riparo, per quanto poteva, a chi era braccato.
A guerra finita, fu uno dei testimoni dell’accusa al maxi-processo di Norimberga celebrato contro i criminali nazisti.
Nel 1983 il memoriale presso l’Istituto Yad Vashem gli conferì il riconoscimento di Giusto fra le Nazioni per il suo operato durante il secondo conflitto mondiale. Gli venne conferita la cittadinanza onoraria dello Stato di Israele. Nel viale degli eroi a Gerusalemme sono stati piantati 26.000 alberi in ricordi dei “gentili” (i non ebrei) che durante la Shoah di spesero per salvare e difendere gli ebrei. Tra questi svetta un albero di carrubo, resistente e perenne, ai cui piedi è affissa una targa con inciso il nome di Tadeusz Pankiewicz.

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Tadeusz raccolse le sue memorie in un libro, Il farmacista del ghetto di Cracovia, edito da UTET e tradotto in italiano. Lo leggerò.

Auschwitz e arte: abissi e vette dell’animo umano

Oggi mi sono recata a Oświęcim, una tranquilla cittadina industriale di medie dimensioni a circa 40 km a ovest di Cracovia. Oświęcim è il nome polacco di Auschwitz. Qui durante il secondo conflitto mondiale venne creato il primo campo di concentramento nazista nei territori polacchi occupati dalla Germania e questo, tristemente, divenne il più grande campo di sterminio tra quelli costruiti dal Terzo Reich. Si stima che qua persero la vita 1 milione e 500 mila persone. Fu in uso dal giugno 1940 al gennaio 1945 e nel periodo di massima attività (agosto 1944) era composto da tre campi principali: Auschwitz I, Auschwitz II – Birkenau a circa 3 km di distanza e Auschwitz III – Monowitz a 9 km (qui fu internato Primo Levi) e da alcune decine di sottocampi.
La visita inizia da Auschwitz I varcando il cancello Arbeit Macht Frei (Il lavoro rende liberi). Poco dopo l’ingresso vi è lo spiazzo dove l’orchestra del campo si radunava per suonare marce che scandivano il tempo del lavoro e davano ritmo. Nei venti blocchi in mattoni rossi è allestita una mostra permanente e molto accurata che illustra la vita e la morte nel campo. Non possono lasciare indifferenti le sale che raccolgono gli oggetti personali (scarpe, pettini, abiti religiosi, valigie) requisiti ai deportati e le cataste di capelli che venivano tagliati ai prigionieri, raccolti in sacchi e venduti a ditte tedesche  che li utilizzavano per la produzione di tessuti e feltro. I beni preziosi sottratti ai detenuti venivano stoccati nei cosiddetti magazzini Canada. La mostra si concentra sulle condizioni igieniche e sanitarie dei prigionieri, sul funzionamento delle camere a gas e degli annessi forni crematori, dedica una sezione alla vita delle donne e dei bambini nei campi e agli esperimenti medici qui condotti. Di notevole rilevanza i blocchi 11 e 20. Il primo era la prigione del campo di concentramento. Appena fuori svetta il Muro della Morte, dove venivano fucilati i condannati. Nei sotterranei del blocco 11 nel settembre del 1941 venne condotto il primo tentativo di uccisione di massa con l’utilizzo del gas Zyklon B. Morirono 600 prigionieri di guerra sovietici e 250 prigionieri polacchi. Nella cella di detenzione 18 morì padre Maksymilian Maria Kolbe, un francescano polacco che si offrì di prendere il posto di un padre di famiglia destinato al bunker della fame (i tedeschi condannavano a morte  per fame 10 detenuti per ogni prigioniero che riusciva ad evadere). Padre Kolbe è stato beatificato nel 1971 da papa Paolo VI e quindi proclamato santo nel 1982 da papa Giovanni Paolo II.
Nel blocco 20 vi è la sala degli interventi dove migliaia di persone furono uccise con un’iniezione di fenolo nel cuore.
Proseguendo a piedi per il campo si raggiunge la piazza dell’appello. Qui i prigionieri si disponevano mattino e sera. Al rientro dai lavori forzati, i vivi dovevano riportare nel campo i corpi dei morti per provare che nessuno fosse scappato. L’appello poteva durare ore e spesso mieteva vittime. Vicino sorge il patibolo collettivo dove venivano eseguite le condanne a morte per impiccagione, di solito durante gli appelli quotidiani per incutere terrore. Il giro di Auschwitz I termina con un sopralluogo ad una camera a gas e a un crematorio. Uscendo dal campo di intravede la forca dove nell’aprile del 1947 venne eseguita la sentenza del Tribunale supremo nazionale polacco che prevedeva la morte per impiccagione per il capo SS di Auschwitz, Rudolf Höss

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Auschwitz II – Birkenau sorge nei pressi del paesino polacco di Brzezinka (che significa bosco di betulle) a 3 chilometri circa da Oświęcim. Si estende a perdita d’occhio su un’area di 175 ettari recintata da filo spinato e torrette di guardia. Divenne il più grande centro di sterminio degli ebrei e il più grande campo di concentramento nazista per prigionieri di diverse nazionalità. Qui dal maggio del 1944 giungevano sul binario morto i convogli ferroviari con i deportati. La maggior parte dei nuovi arrivati veniva ritenuta dai medici delle SS inabile al lavoro e uccisa il giorno stesso nelle camere a gas dotate di ascensori che portavano i corpi direttamente nei crematori. Le ceneri venivano usate come fertilizzante. La vita media qui si aggirava intorno ai 5 mesi, Il campo era diviso in diverse sezioni e arrivò ad ospitare 100.000 internati sorvegliati da 4.000 soldati e 100 ufficiali. A Birkenau furono erette baracche in mattoni rossi e baracche in legno (semplici stalle prefabbricate per cavalli). Birkenau fu per buona parte distrutto dai nazisti in ritirata, ma quel che resta rende ancora bene l’idea dell’orrore.
Camminando ci si imbatte in sei vasche per la raccolta delle acque piovane: il campo era coperto da una regolare polizza assicurativa. E la compagnia di assicurazione chiese che venissero costruite 6 vasche con una capacità minima di 100 metri cubi per conservare le acque che dovevano servire a spegnere i probabili incendi, vista la presenza di numerose baracche in legno.
La nostra guida ci racconta che anche la Croce Rossa visitò Birkenau senza però rendersi pienamente conto dell’orrore che qui albergava.
Entro in una baracca in mattoni: ogni costruzione era destinata ad accogliere 700 persone su 60 panche in legno disposte su tre livelli. I 180 giacigli ospitavano 4-5 persone che si riparavano dal freddo e dall’umidità con paglia e qualche coperta.
Auschwitz III – Monowitz non è al momento aperto al pubblico.

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Al termine della visita viene difficile parlare. Su un muro leggo “Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo (George Santayana)”. Già.
L’uomo, tutti gli uomini racchiudono dentro di sé, al tempo stesso, profondi abissi e altissime vette. Se questa orribile storia l’avessi vissuta, avrei capito? Sarei stata una carnefice? Ma questa storia si ripete ancora oggi, in altre forme e in altri luoghi.
Cosa si può quindi fare? Dovremmo circondarci di bellezza per arrivare a scalare le vette più alte del nostro animo, quotidianamente dobbiamo  allontanarci dai nostri mostri interiori, smettere di nutrirli. E ricordarci di sviluppare un senso critico. La pace è un esercizio faticoso e costante, come la pazienza. Esercitiamoci a disinnescare tensioni al lavoro o a casa, ricordiamoci di farci veicolo di bellezza e di contagiare chi ci circonda. Probabilmente è una soluzione troppo semplice, ma da qualcosa individualmente si deve partire.

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Nel tardo pomeriggio, al ritorno a Cracovia, vado a ristorare l’anima al Museo Nazionale dove è esposta la celebre tela di Leonardo da Vinci, La dama con l’ermellino.
Mi fermo a lungo ad ammirare il ritratto di Cecilia Gallerani. Sento la speranza albergare nuovamente nell’anima. La fitta che ho avvertito questa mattina si fa meno forte. La stessa umanità che ha prodotto i campi di sterminio ha creato un capolavoro senza tempo. Rimane la possibilità di scegliere cosa vogliamo diventare. Una decisione faticosa da rinnovare ogni giorno. Per nutrire la mia parte nobile e provare ad affamare il mio mostro interiore, concludo questa giornata ascoltando il Notturno opera 27 numero 2 di Frédéric Chopin, uno dei figli illustri di questa bella Polonia. Il brano preferito da mio marito.

Visitare Varsavia in bici

E alla fine è successo. Sono arrivata a Varsavia, da Danzica, in un caldo pomeriggio di metà giugno. Dopo aver trovato una sistemazione ed essermi liberata del bagaglio, sono uscita in esplorazione della città. Volutamente senza mappa e senza aver stabilito un itinerario. Libera dall’ansia di vedere, fotografare, andare veloce.
Ho girato senza meta, con lentezza, per scoprire colori, odori e l’anima di Varsavia. Ero a giro sul lungofiume che costeggia la Vistola quando un temporale inatteso si è rovesciato sulla città. Ho trovato riparo in un vicino sottopasso. E lì mentre osservavo la maestosità della natura, mentre l’aria si profumava di pioggia all’improvviso sono diventata nessuno. Sentivo il rumore della pioggia e non sentivo più il peso di essere io. Per un attimo mi sono liberata di me, ho dimenticato chi sono e che ruolo temporaneamente ricopro nel mondo e mi sono fatta pioggia, mondo, tutto.
Mentre la mente vagava libera, mi sento chiamare. Sono i miei compagni d’attesa. Intavoliamo una conversazione maccheronica e, chiacchierando, inganniamo il tempo. Un momento prezioso. E quando finalmente le nuvole smettono di lacrimare, leggera mi dirigo verso casa.
Il giorno dopo comincia presto. Affitto una bicicletta e sfreccio da un quartiere all’altro di Varsavia. Per chi capitasse a giro da queste parti, consiglio di usare il servizio pubblico di noleggio biciclette (www.veturilo.waw.pl). E’ necessario registrarsi (l’operazione non vi ruberà più di un paio di minuti) e potrete usare, a prezzi modici, le bici dislocate in numerosi punti della città. Esiste ovviamente anche una app che vi renderà la vita ancora più facile.
Il mio giro prende avvio dalla Colonna di Sigismondo III Vasa nella Città Vecchia, un piccolo quartiere che ospita numerosi siti di interesse storico e una meravigliosa piazza, molto animata. Il quartiere, all’apparenza antico, è in realtà stato ricostruito di recente. Al termine del secondo conflitto mondiale, Varsavia era un cumulo di macerie: dopo l’insurrezione del 1944 i tedeschi rasero al suolo la città. Si stima che nel 1945 solo il 15% degli edifici fosse ancora in piedi. Si contarono 800.000 morti su una popolazione di 1,3 milioni. Si pensò addirittura di spostare la capitale altrove, ma alla fine si optò per la ricostruzione. Si fece ricorso a disegni, fotografie, quadri (alcuni dei quali dipinti da Canaletto e ancora oggi esposti presso il Castello Reale) e si riedificò la Città Vecchia. I lavori durarono dal 1949 al 1963 e si rivelarono così accurati che l’UNESCO decise nel 1980 di elevare il quartiere a Patrimonio dell’Umanità.
Proseguo visitando la Città Nuova e la Cittadella, una massiccia fortezza in mattoni rossi affacciata sulla Vistola ed eretta per volere dello zar dopo l’insurrezione di Varsavia del 1830. Qui svetta l’imponente Brama Stracen, una massiccia porta che divenne il luogo delle esecuzioni capitali per i prigionieri politici.
A sud della Città Vecchia vale la pena fermarsi a visitare l’Università di Varsavia, la Chiesa della Santa Croce dove, in una piccola urna, riposano i resti del cuore di Frédéric Chopin fatti appositamente rientrare da Parigi e Palazzo Radziwitt, il palazzo presidenziale dove nel 1955 venne firmato il Patto di Varsavia che, durante la Guerra Fredda, sancì l’alleanza tra i paesi del blocco sovietico in contrapposizione alla NATO.

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Forse non tutti ricordano che Madame Curie, al secolo Marie Sklodowska, nacque a Varsavia in ulica Freta nel 1867. A lei, vincitrice di due premi Nobel per la fisica e per la chimica per aver scoperto il radio e il polonio, la città ha dedicato una statua e un piccolo museo.
Sempre a Varsavia, poco distante dalla chiesa della Santa Croce, si può ammirare un bel monumento ad un altro figlio illustre del paese, Niccolò Copernico.
Se vi avanza del tempo e avete ancora voglia di pedalare, potete perdervi tra i viali lussureggianti di vegetazione dei Giardini Sassoni e andare al di là della Vistola per visitare il sobborgo Praga, storicamente abitato da operai e indigenti. Il quartiere sta vivendo una lenta ascesa anche grazie ad artisti, musicisti e imprenditori che qui si sono trasferiti attratti dagli edifici prebellici e dai bassi canoni di affitto.

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Non mancate di visitare quel che rimane dell‘Antico Ghetto Ebraico. Varsavia prima del 1939 ospitava una fiorente comunità ebraica (380.000 persone). Recatevi all’unica Sinagoga (Nozyk) sopravvissuta e rivivete la storia del ghetto, dell’insurrezione di Varsavia e degli ebrei polacchi presso i musei di questo quartiere.

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Infine fate come me e concludete il vostro giro di Varsavia salendo in l’ascensore (a questo punto vi assicuro che sarete stanchi!) al 30esimo piano del Palazzo della Cultura e della Scienza, un brutto edificio eretto agli inizi degli anni ’50 e donato dall’Unione Sovietica alla Polonia in segno di amicizia.
Da qua si scorgono innumerevoli palazzoni sovietici edificati dalle autorità a partire dal 1945 per fornire case alla popolazione dopo la guerra e qualche grattacielo di recente costruzione. Di certo non si gode di un panorama mozzafiato, ma si può “vedere” la Storia recente della città.