Trekking nel parco nazionale di Horton Plains

Il Parco Nazionale di Horton Plains è un’area protetta nella regione della Hill Country, nel cuore dello Sri Lanka. Questo plateau è un altopiano ondulato situato a un altitudine compresa tra i 2.100 e i 2.300 metri s.l.m. All’orizzonte si scorgono il Kirigalpotta (2.395 mt) e il Totapola (2.357 mt), rispettivamente la seconda e la terza cima dell’isola per altitudine.
Ricoperte da vaste praterie intervallate a tratti da fitta foresta pluviale, formazioni rocciose, cascate e laghi, le Horton Plains si estendono su un’area di oltre 31 kmq.  Vantano una ricchezza di flora e fauna pressoché unica e sono l’habitat naturale di alcune specie animali e vegetali endemiche del posto. Le aree pianeggianti sono caratterizzate da grandi cespugli di trebbia dello Sri Lanka, mentre le zone paludose sono ricoperte da spessi strati di muschio. Numerosissimi sono i calofilli, alberi con una caratteristica chioma ad ombrello e fiori bianchi, e i rododendri arborei con i loro fiori di un rosso sanguigno.
La diversità di paesaggio va a braccetto con una ricca varietà faunistica. Nel parco vivono leopardi, cervi sambar e cinghiali, difficili però da avvistare di giorno. L’area è frequentata da molti appassionati di birdwatching poiché è possibile avvistare diverse specie endemiche.

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Questo parco è stato dichiarato area protetta nel 1988 ed è uno dei pochi parchi nazionali dello Sri Lanka dove i visitatori possono girare senza una guida, seguendo tuttavia percorsi tracciati obbligatori dai quali è vietato allontanarsi. Accedendo dal Visitor Center, si passa attraverso un severo controllo dei propri averi. Tutte le borse e gli zaini saranno aperti e ispezionati con cura e la plastica buttata via e sostituita, dove possibile, con involucri in carta. Gli oggetti considerati incompatibili con la visita del parco saranno trattenuti all’ingresso e restituiti solo all’uscita.
Immediatamente oltrepassato il visitor center, parte un circuito ad anello di 9.5 chilometri che attraversa parte dell’altopiano. Ci vorranno circa 3 ore per completare il trekking. Le Horton Plains terminano bruscamente all’altezza del World’s End, un’incredibile scarpata (senza barriere di protezione!) che si apre su un dirupo di 880 metri. La vista sulla vallata è incredibile, ma è necessario arrivare qui prima delle 9 di mattina. Se tarderete, avrete ottime probabilità di contemplare solo un muro grigio di nebbia. Il tempo cambia in fretta e nubi e foschia possono palesarsi all’improvviso. Il circuito prosegue fino alle Baker’s Falls per ricondurvi poi all’ingresso.
Questo sito è di una bellezza mozzafiato e permetterà ai viandanti di immergersi nella natura ancora incontaminata e di goderne appieno. La serenità risiede nelle piccole cose, si nutre di silenzio ed è più facile da incontrare in mezzo a praterie e foreste. La natura è una cura per l’anima e un ottimo riequlibratore di priorità ed energie. Così impermanente, eterna, senza confini, di nessuno eppure di tutti, ci ricorda della nostra temporaneità, mentre parla di eternità alla nostra anima. Qui più che altrove è un dovere essere pellegrini, amanti rispettosi del luogo che non lasciano traccia del loro passaggio. Le Horton Plains lasceranno invece una traccia di serena felicità in chi le visita.

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Alcune informazioni pratiche: le Horton Plains sono visitabili con una gita di un giorno se fate base a Ohiya (ca 10 chilometri), Nuwara Eliya (ca 30 chilometri) o Ella (ca 50 chilometri). Il mezzo di trasporto più comodo ed economico è il tuk tuk. Contrattate la tariffa in anticipo.

Foto di Emiliano Allocco (Clicca qui e vedi altre foto di Emiliano su Flickr) 

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Sri Pada, dove le religioni si incontrano. Storia, leggenda e poesia di un’orma alle porte del paradiso.

Nel cuore della verdeggiante e suggestiva Hill Country, nel centro sud dello Sri Lanka, con i suoi 2.243 metri di altezza svetta imponente lo Sri Pada. Questa montagna è conosciuta con vari nomi: in inglese Adam’s Peak (il “picco di Adamo”), in sanscrito Sri Pada (“la sacra orma del Buddha”) o Samanalakande in singalese (la “montagna delle farfalle” dove queste creature si recano a morire). Da oltre 1.000 anni rappresenta un luogo di pace dove le principali religioni si incontrano: è meta di pellegrinaggi per buddisti, cristiani, musulmani e induisti. Sulla sulla sommità, sorge un bel monastero all’interno del quale è conservata una grande orma di un piede sinistro (1,8 metri), lasciata su una pietra. I buddisti credono che sia l’ultima impronta terrena del Buddha durante la sua ascesa in paradiso. Per i cristiani qui Adamo mise per la prima volta piede sulla terra dopo la cacciata dall’Eden, mentre gli induisti la venerano come l’impronta del dio Shiva Adipadham. Altre leggende narrano che questo sia invece il calco del piede di San Tommaso, il primo apostolo a giungere in India e a introdurre il cristianesimo in Asia. Lo Sri Pada è descritto anche da Marco Polo ne Il Milione e ne conferma la tradizione e l’importanza come luogo di culto e pellegrinaggio:
“E sí vi dico che gl’idolatori dalle più lontane parte vi vengono in pelligrinaggio, siccome vanno i cristiani a San Iacopo in Galizia. Ma i saracini che vi vengo in peligrinaggio, dicono ch’è pure il munimento d’Adamo; ma, secondo che dice la Santa Iscrittura, il munimento d’Adamo si è in altra parte”. 

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La stagione dei pellegrinaggi prende avvio in dicembre nel giorno di plenilunio (poya) e si protrae sino alla festa di Verak in maggio. Durante questi mesi, un flusso costante di fedeli e turisti si inerpica su per le pendici del monte. E’ piuttosto comune l’ascesa in notturna per poter giungere al monastero prima del’alba e godere della meraviglia del sole che sorge sulla valle. Durante questo tempo, il sentiero è illuminato e vi sono numerose bancarelle che vendono cibo, bevande, coperte e cappelli di lana ai viandanti. Si può iniziare la salita da Dalhousie: il percorso fino in cima è lungo 7 chilometri e contempla un dislivello di 1.000 metri. Quasi tutta l’ascesa si dipana su gradini (oltre 5.200!) in pietra o muratura, irregolari e alti. Durante il giorno il sentiero è per buona parte sotto il sole cocente. Abbiate cura di portare con voi una crema solare, abiti a maniche lunghe e un cappello. Mio marito ed io abbiamo impiegato 3 ore e mezza a salire e un’ora e mezza a scendere, fermandoci a pranzare e a riposare diverse volte lungo il tragitto.
Se volete acquisire maggiori meriti spirituali, potete partire da Ratnapura e affrontare una salita più lunga e sfiancante, ma altrettanto ben segnalata ed illuminata.
Il tempio buddhista sulla cima è un luogo di grande fascino e spiritualità. Potrete colpire il batacchio della campana al vostro arrivo e offrire al cielo le intenzioni che avrete maturato durante il tempo di ascesa. Dalla cima si gode di una vista sconfinata sulla valle.
La nostra storia però è stata differente: dopo essere saliti da Dalhousie per oltre 3 ore sotto un sole impietoso e bollente che non ci ha concesso tregua, siamo stati raggiunti da una nube (la prima della giornata!) mentre ci arrampicavamo, esausti, sugli ultimi gradini. Una coltre grigia, impenetrabile, è stato il paesaggio che abbiamo potuto ammirare dalla vetta. Una beffa in piena regola o più probabilmente un cattivo karma! Dopo la delusione iniziale, forse ora posso scrivere che non è stato poi male rimanere, per un po’ di tempo, isolati dal mondo, tra le nuvole, a due passi dal paradiso. Se dovesse esserci una seconda occasione per noi di arrampicarci sullo Sri Pada, avremo cura di partire da Ratnapura nella speranza di acquisire meriti sufficienti e godere così della vista sulla valle!
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 Foto di Emiliano Allocco (Vedi altre foto di Emiliano su Flickr) 

Colombo, orfana di mare

Colombo per me? Un faro, orfano di mare. Se mi chiedessi di descriverti la capitale singalese e di sunteggiarti in breve le impressioni che ha suscitato in me, ecco io sceglierei di ricorrere proprio a questa metafora.

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L’Old Galle Buck Lighthouse si raggiunge arrampicandosi su una scalinata che conduce ad un’ampia terrazza che nel 1954, anno di costruzione dell’edificio, confinava con l’oceano Indiano. Oggi questo bel faro è lambito da una spiaggia artificiale e si affaccia su un ampio cantiere in gran fermento. Urge allargare il Colombo Port City, ampliare i traffici di merci e costruire un nuovo quartiere che si estenderà su 260 ettari e sarà all’avanguardia con i suoi altissimi grattacieli, condomini super accessoriati, canali sull’oceano, enormi centri commerciali. Come in quasi tutto il sud-est asiatico, anche lo Sri Lanka non ha resistito al richiamo della modernità e ai capitali cinesi. Ma tu riesci a immaginare la malinconia di un faro, ridotto a monumento, che dovrà imparare a sopravvivere senza il rumore del mare? Che farà ora che non potrà più indicare la rotta ai naviganti?
C’è frenesia. I cantieri pullulano in tutta la città. Via il vecchio, largo al nuovo che avanza a grandi balzi. Sempre la stessa storia: modernità, accelerazione, consumismo come risposte facili e immediate ai mali moderni e ai bisogni umani. È davvero questo il progresso? Perché anche tu, Colombo, vuoi copiare un sistema di sviluppo esistente che sappiamo già non funzionare? Sarebbe tempo di creare un altro modello, di inventarci un nuovo modo di stare insieme tra noi esseri umani, ridefinire il senso della parola “crescita”, esplorare le profondità del nostro animo. Probabilmente la faccio troppo facile. Ma oggi è, relativamente, facile anche sbarazzarsi di un meraviglioso paesaggio tropicale, strappare terre al mare, ridisegnare lo skyline cittadino e costruire nuovi centri commerciali. Il conto lo pagherà domani qualcun altro. Non pretendo che sia tu, Colombo, a risolvere tutto questo. Ma più ti guardo e più ti vivo, più la malinconia mi attanaglia. Mi sento come un faro senza più sbocchi sul mare.
Colombo mia, ti ho scattato queste tre fotografie che ho la presunzione di credere che ti ritraggano esattamente come sei ora, sul finire del 2019, in bilico tra glorie passate e modernissime lusinghe. Ti ho vista così. Tu sei per me un tempio Hindu che convive con un’altissima torre delle comunicazioni (350 mt) a forma di fiore di loto che di notte si illumina e cambia colore a intermittenza. Sei un grattacielo nato dove prima sorgeva una piccola abitazione ora distrutta. Sei un binario del treno che muore ai piedi del Loto delle comunicazioni.

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Se avete aperto questo articolo pensando di trovarci qualche informazione utile per il vostro soggiorno in città, cerco di non deludervi. In calce qualche consiglio pratico.  Colombo è una città trafficata, inquinata, caotica. Verrete importunati a ogni angolo da conducenti di tuk tuk che si offriranno di portarvi a fare un “city tour”. Dopo un paio di no, non dovreste essere più disturbati.
La città non offre grandi attrattive, non fermatevi più di un giorno o 2 al massimo.
Cosa vedere a Colombo:

  • Il quartiere di Fort è il centro pulsante della città. Durante la dominazione europea, Fort era davvero un forte, circondato dal mare su due lati e da un fossato sugli altri due. Oggi è invece un quartiere altamente militarizzato. Vi capiterà spesso di dover cambiare strada per via dei posti di blocco. Non mancate di visitare la Torre dell’Orologio, il Dutch Hospital (un complesso di epoca coloniale risalente al Seicento che oggi ospita caffè, ristoranti e negozi alla moda), il World Trade Center, il porto e la residenza ufficiale del presidente. Prima di lasciarvi Fort alle spalle, tributate un omaggio all’Old Galle Buck Lighthouse (il faro privato del mare in nome del progresso) e sorseggiate un lime juice al Pagoda Tea House, un’elegante casa del tè che serve deliziosi spuntini dal 1884. Qui i Duran Duran girarono il video di Hungry Like a Wolf negli anni ‘80;

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  • Il quartiere di Pettah, uno dei più antichi della città, è un animato bazar a cielo aperto. Trascorrete qui almeno un paio d’ore e perdetevi tra le sue vie. In ogni strada, troverete commerci di beni differenti. Il mercato più interessante è quello alimentare, ospitato sotto una tettoia lungo 5th Cross Street (Federation of Self Employees Market). I Pettah floating markets (mercati galleggianti) sono invece deludenti e privi di fascino. Costruiti lungo un canale industriale e inaugurati nel 2014, sono una buona espressione dei tempi correnti. Troverete chincaglierie di dubbia utilità, destinate a durare appena il tempo di un capriccio. Non mancate di visitare il tempio hinduista di Sri Kailawasanathan Swami Devasthanam Kovil;

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  • Passeggiate per la vivace Main Street e fermatevi ad ammirare il vecchio municipio (Old City Hall) risalente al 1865 quando l’isola di Ceylon era una colonia britannica e la meravigliosa moschea Jami Ul-Alfar di rosso e bianco dipinta. Vi toglierà il fiato. Purtroppo non è visitabile all’interno;

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  • Riprendete fiato e rilassatevi al Galle Face Green, una striscia di verde affacciata sul mare, immediatamente a sud di Fort. Qui gli abitanti di Colombo si ritrovano alla sera per rilassarsi e ammirare il tramonto. Per onestà di cronaca, non sarà un tramonto romantico. Il luogo è piuttosto sporco e i nuovi alberghi, condomini e palazzi di uffici costruiti immediatamente alle spalle di Galle Face Green rovinano l’atmosfera. Inoltre il porto di Colombo ostruisce la vista del mare aperto;
  • Non potete mancare di visitare il Gangaramaya Temple in Sri Jinaratana Road. Questo bel tempio buddhista ospita una biblioteca, un museo e una ricca collezione di oggetti donati nel corso degli anni da fedeli e visitatori;

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  • Prendete un tuk tuk e dirigetevi nel quartiere dei Cinnamon Gardens, a circa 5 chilometri da Fort. Solo cent’anni fa, queste terre erano coperte da piantagioni di cannella. Recatevi al vicino National Museum, un imponente edificio bianco che ospita una collezione permanente di opere d’arte, bassorilievi e statue dello Sri Lanka. Passeggiate lungo i viali alberati del Viharamahadevi Park, il polmone verde del quartiere e concludete la vostra esplorazione dei dintorni con una visita al Lionel Wendt Centre, un bel centro culturale che organizza mostre ed eventi temporanei. Noi abbiamo potuto ammirare una bella mostra dedicata all’arte del Bangladesh;

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  • Gustate un piatto di ottimo riso e curry accompagnato da una fumante tazza di tè in uno dei tanti ristoranti lungo le strade. Non ve ne pentirete, sarà un’esplosione di sapori e spezie. Vegetariani e vegani non avranno problemi a mangiare in città. 

Kolkata, tra visibile e invisibile

Kolkata è così, rumorosa, misera, sporca, trafficata, squisitamente colta, raffinata, decadente, calda, a tratti soffocante, spesso maleodorante. È un insieme di opposti che attraggono e respingono il visitatore. No, non direi che è bella, ma per certo è tremendamente affascinante. Non vi lascerà ripartire a mani vuote. State pur certi che saprà regalarvi qualcosa. Più che altrove, qui, visibile e invisibile coesistono e si sovrappongono. Ieri ho scritto che di un luogo si ricordano le risposte che questo sa dare alle nostre domande e ai nostri bisogni e soprattutto gli interrogativi nuovi che sa porre, forzando il viaggiatore a ricercare nuove risposte e a intraprendere nuove vie. E in questo Kolkata è maestra, semina dubbi e interrogativi che obbligano il viandante a intraprendere un dialogo ininterrotto con il sé più profondo. Si va a Calcutta per scoprire qualcosa del mondo e si ritorna a casa avendo appreso qualcosa in più su sé stessi.

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La Città della Gioia, con i suoi slum e le sue baraccopoli, è stata narrata nel bel romanzo di Dominique Lapierre. Vi accoglierà con la sua brulicante umanità che si riversa per le vie cittadine a tutte le ore del giorno. Entrate in sintonia con la metropoli facendo una passeggiata a piedi. Quanta vita passerà davanti ai vostri occhi! Potrete imbattervi in una vacca che gira libera o in qualche amichevole cane randagio che vi seguirà per un breve tratto. Le vie sono trafficate e popolate da rikshaw trainati tristemente dai cosiddetti uomini cavallo, da tuk tuk, motorini, biciclette, auto, bus e dagli immancabili taxi gialli. Fermatevi in uno dei tanti banchetti a bordo strada a gustare un chai, il profumatissimo tè indiano, arricchito da zucchero e latte e servito in piccole tazze di terracotta. Potete scegliere di assaporare la sua versione speziata (il masala chai) o la variante più soft, addizionata solo di zenzero in polvere. Immancabili i corvi che volano nei cieli cittadini in cerca di immondizie.
Kolkata è ritornata ufficialmente al suo vecchio nome bengalese solo nel 2001. Prima, sotto la dominazione inglese, era nota come Calcutta. È la capitale del Bengala Occidentale e ha conosciuto, nel tempo, fortune alterne. Fu capitale dell’India britannica dal 1772 fino al 1911 quando la sede del potere fu spostata a Nuova Delhi. Sorge sulle rive del fiume Hoogli, una delle numerose ramificazioni del delta del Gange. Vanta un enorme porto fluviale. Fa parte dello skyline cittadino il ponte Howrah, motivo di orgoglio per i locali. Si tratta infatti del più lungo ponte sospeso dell’Asia e il terzo al mondo. Nei pressi sorge l’omonima stazione ferroviaria e un incantevole e caotico mercato dei fiori. La città è attraversata dalla metropolitana e da una rete tranviaria. Gli ex edifici coloniali, eleganti e decadenti, sono concentrati sopratutto nel quartiere di EsplanadeKolkata è nota per la sua vivacità culturale e intellettuale. Qui si svolgono importanti festival cinematografici, musicali, culturali, teatrali, letterari. Cinque personalità insignite del Premio Nobel sono legate a doppio filo con Calcutta: Santa Teresa di Calcutta (Nobel per la Pace nel 1979), Sir Ronald Ross (Nobel per la Medicina nel 1902), Rabindranath Tagore (Nobel per la Letteratura nel 1913), C V Raman (Nobel per la Fisica nel 1930), Amartya Sen (Nobel per l’Economia nel 1998). Gli abitanti di Kolkata vanno estremamente fieri della loro città e del suo patrimonio culturale. Come soleva dire Gopal Krishna Gokhale: «Quello che il Bengala pensa oggi, l’India lo pensa domani e il resto del mondo il giorno dopo».
A ogni angolo questa città saprà mettervi alla prova e parlare al vostro io interiore. Mentre vi immergete nella città invisibile, ecco a voi un breve elenco (non esaustivo) di cosa visitare della metropoli visibile.

La Casa Madre delle Missionarie della Carità in AJC Bose Road 54/A
Questo convento è il quartier generale mondiale dell’ordine delle Missionarie della Carità dal 1953. Al piano terra sono sepolti i resti mortali di Madre Teresa di Calcutta. Qui la santa, originaria di Skopje, visse per oltre 40 anni. In una piccola cella visitabile, al primo piano, propio sopra alle cucine, morì il 5 settembre 1997. Se siete di passaggio in città e avete qualche giorno libero, spendetelo a far volontariato presso una delle case per gli ultimi e i diseredati che la Madre aprì in città. Non servono particolari qualifiche. Sarà un’esperienza unica. Incontrerete volontari da tutto il mondo, ognuno con la propria storia e con un bagaglio di aspettative diverso.

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Il Victoria Memorial
Questo incantevole edificio si staglia, bianco e squisitamente decorato, all’interno del parco Maidan. Fu eretto nel 1921 con il fine di commemorare e celebrare la regina Vittoria, imperatrice dell’India. Potrete trascorrere qui una mezza giornata visitando il museo e godendo del bel parco circostante.
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La Cattedrale di Saint Paul
Costruito in stile gotico, questo imponente edificio sacro è la sede della diocesi di Calcutta.
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Birla Planetarium
Questa suggestiva struttura circolare di un solo piano accoglie il planetario più grande dell’Asia e il secondo del mondo.
Il Mullik Ghat Flower Market, il ponte Howrah, la stazione ferroviaria Howrah
Queste tre attrazioni si trovano una accanto all’altra. Il ponte Howrah vanta il primato di essere il più lungo ponte sospeso dell’Asia e il terzo al mondo. Nei suoi pressi sorge l’omonima stazione ferroviaria, la seconda più antica del paese, e un incantevole e caotico mercato dei fiori.

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College Street
Questa strada, lunga all’incirca un chilometro e mezzo, si snoda nel centro di Calcutta e ospita un mercato perenne di libri usati. Sorge nei pressi del quartiere universitario ed è frequentata soprattutto da studenti.

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La casa natale di Rabindranath Tagore
A nord di Calcutta sorge la casa natale della famiglia Tagore, ora convertita in un museo permanente. L’edificio è stato restaurato fedelmente.
South Park Street Cemetery 
Fondato nel 1767 e in uso fino al 1830, questo cimitero cristiano fu uno dei primi a essere costruito lontano da una chiesa. Ospita circa 1.600 tombe ed è probabilmente il più grande cimitero consacrato cristiano al di fuori dell’Europa e dell’America. E’ un luogo affascinante, ben conservato e recentemente ristrutturato. È un’oasi di silenzio e pace all’interno della caotica Calcutta.

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Kali Ghat
È un meraviglioso tempio induista dedicato alla dea Kali, sempre affollato da fedeli che qui giungono in pellegrinaggio da tutta l’India. Secondo la leggenda, il tempio sorge nel punto esatto in cui caddero le dita del piede destro della dea. Accanto si staglia il Nirmal Hriday, la prima casa per morenti aperta da Madre Teresa a Calcutta.
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Murales di Madre Teresa di Calcutta
All’uscita della stazione della metropolitana nei pressi del Kali Ghat troverete ad attendervi questo enorme murales celebrativo di Madre Teresa, alto 40 metri che fa bella mostra di se su un alto edificio.
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Il Palazzo di Marmo
Questa sontuosa residenza in stile neoclassico del XIX secolo è uno degli edifici meglio conservati dell’epoca coloniale. Il suo nome deriva dal marmo bianco utilizzato per i muri, i pavimenti e le statue che lo ornano. E’ necessario prenotare in anticipo la visita. Il palazzo non è sempre aperto al pubblico e vi si accede solo su appuntamento.
Shaheed Minar
Un’alta torre del 1828 svetta sulla città. Fu eretta in memoria del generale Sir David Ochterlony, comandante della compagnia delle Indie.
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A sud dove il mare è più blu: qualche giorno di riposo a Sihanoukville

Dopo un lungo viaggio regalatevi qualche giorno di riposo. Nulla è meglio del mare per ristabilire equilibri persi, ricaricare le batterie e ritrovare un po’ di pace interiore. Almeno per me funziona così. Dopo la fatica della scoperta della Cambogia, mi sono recata a Sihanoukville nel sud del paese, capoluogo della provincia di Preah Sihanouk. E’ tempo di relax.
Sihanoukville fu fondata negli anni ’50 strappando un lembo di terra alla giungla per volere dell’ultimo re della Cambogia, Sihanouk, che intendeva farne il più importante porto a pescaggio profondo del paese e un porto marittimo cruciale per evitare che i traffici internazionali continuassero a passare attraverso il delta del Mekong nel vicino Vietnam. In tutta onestà è una città brutta, turistica, caotica, troppo mondana, in continua espansione. Nuove costruzioni sorgono velocemente per poter dare ospitalità a un numero sempre crescente di turisti. Ma non disperate. Se volete evitare il caos, non recatevi nella zona centrale di Serendipity Beach. Con una corsa in tuk tuk, dirigetevi a sud e raggiungete Otres beach a circa 5 km dal centro città. Qui la spiaggia è bianca, il mare cristallino e l’ombra dolce delle piante di casuarina vi darà ristoro dal caldo. La spiaggia è lunga 4 km, stranamente poco affollata e decisamente piacevole. Se camminate ancora verso sud troverete per certo un angolo isolato dove fermarvi.

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Prendete il sole, riposate, leggete, fate lunghi bagni. Se volete essere più attivi, vi è la possibilità di fare snorkeling o una gita in barca alle isole vicine. A 15 km a est di Sihanoukville sorge il Parco Nazionale di Ream che vi offrirà la possibilità di fare trekking nella foresta o di raggiungere in barca spiagge incontaminate navigando tra le mangrovie. Scegliete agenzie turistiche che promuovono gite ecologiche. Noterete purtroppo come il Parco Nazionale, sebbene sia un’area protetta, sia seriamente minacciato dal turismo.
Al largo delle coste di Sihanoukville si combatté per gli Stati Uniti d’America l’ultima battaglia ufficiale della guerra del Vietnam. Il 12 maggio del 1975, due settimane dopo la caduta di Saigon, la nave container statunitense Mayagüez stava raggiungendo la Thailandia da Hong Kong quando cadde in mano ai khmer rossi. Il presidente americano Gerald Ford bollò l’accaduto come un vero e proprio atto di pirateria. I 39 membri dell’equipaggio vennero segretamente fatti sbarcare a Sihanoukville. Tre giorni più tardi l’esercito statunitense si lanciò nell’attacco della Mayagüez ma la nave era deserta. L’equipaggio era stato imbarcato su un peschereccio thailandese e mandato alla deriva. Della liberazione si seppe quando l’attacco era ormai stato sferrato.

Foto di Emiliano Allocco (link a Flickr)

 

Sambor Prei Kuk, alla scoperta del più importante sito pre-angkoriano della Cambogia

Prima di lasciare Kompong Thom e dirigervi verso la vicina Siem Reap tributate una visita a Sambor Prei Kuk, il più importante sito monumentale dell’era pre-angkoriana. Questo complesso sorge a 30 chilometri circa a nord di Kompong Thom e conta più di 100 edifici, 10 dei quali a pianta ottagonale, circondati e in alcuni casi inglobati da una rigogliosa foresta sub-tropicale. I templi sono costruiti principalmente in mattoni con elementi decorativi in arenaria.

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Raggiungete il sito a bordo di un tuk tuk, ammirate la bellezza della campagna cambogiana e assaporate la lentezza del viaggio.

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Noto con il nome di Ishanapura, questo insediamento fu la capitale dell’impero Chenla all’inizio del VII secolo d.C. e rimase un importantissimo centro culturale anche durante l’epoca di Angkor. Cadde in stato di abbandono a partire dal XV secolo per essere riscoperto a inizio Novecento da studiosi occidentali. In un area di  circa un chilometro per lato, sorgono tre complessi templari principali con caratteristiche simili che furono probabilmente fonte di ispirazione per la costruzione di Angkor cinque secoli più tardi. Ciascun complesso di templi è protetto da una doppia cinta muraria, consta di una torre centrale circondata da laghi, porte e templi.

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Negli anni ’70 il sito fu bombardato dall’aviazione americana che sosteneva il governo di Lon Nol contro il regime dei khmer rossi. Alcuni crateri sono ancora visibili oggi. L’area è stata bonificata dalle ultime mine solo nel 2008. Per godere al meglio della visita a questo sito ingaggiate una guida locale, sosterrete l’economia del luogo e farete piacevoli incontri. Noi abbiamo avuto la fortuna di ingaggiare una guida donna, una ragazza madre con una coraggiosa storia di riscatto sociale alle spalle.
Concedetevi una lenta passeggiata all’ombra della foresta, lungo i suoi sentieri sabbiosi. Respirerete un’atmosfera serena e decisamente rilassata. Forse le cose cambieranno presto: Sambor Prei Kuk è stato iscritto dall’Unesco nella lista dei siti patrimonio dell’umanità nel luglio del 2017. Probabilmente molti turisti giungeranno a visitare il sito e  un po’ di magia sparirà. Ecco una cartina del luogo che vi agevolerà nella visita. La mappa è tratta dal sito https://moon.com/
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Foto di Emiliano Allocco 
(link a Flickr)

809 gradini per il paradiso: salire a piedi a Phnom Santuk

Ci siamo lasciati Kratié alle spalle e, lungo la strada che conduce a Siem Reap, abbiamo deciso di fare tappa per una notte appena a Kompong Thom. Da qui con un tuk tuk abbiamo raggiunto Phnom Santuk, la montagna sacra (207 metri) più importante della regione e meta di pellegrinaggi buddhisti. Riempitevi gli occhi con i bucolici paesaggi che incontrerete lungo la via.
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I pendii di Phnom Santuk sono ricoperti di rigogliosa foresta e costellati di pagode e raffigurazioni del Buddha. Acquistate una bottiglia d’acqua (grande!), prendete fiato, toglietevi le scarpe e, come un pellegrino, salite in cima a questo promontorio: percorrete lentamente gli 809 gradini della scalinata che vi porterà ad espugnare la vetta del monte sacro. Sarà un’ascesa faticosa, ma guadagnare la cima vi ripagherà. L’ultimo tratto lo percorrerete in compagnia di un gran numero di scimmie incuriosite dalla vostra presenza. Prestate attenzione ai vostri averi.

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I più pigri possono salire a Phnom Santuk da una strada asfaltata alternativa, lunga 2,5 km. Per un paio di dollari, potete farvi portare su da qualche motociclista volenteroso. In cima dedicatevi alla visita delle numerose pagode. Sul lato meridionale, andate alla ricerca dei Buddha distesi: alcuni sono stati scavati nella roccia nei secoli passati, altri sono versioni più moderne in cemento.
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Dai massi in cima al promontorio si gode di una bella vista sulla valle. Aspettate qua il tramonto e ammirate le risaie tingersi di rosso. La scalinata non è illuminata. Se decidete di trattenervi a Phnom Santuk fino a sera, accertatevi di avere con voi una torcia elettrica.
Sulla sommità vi è un wat in attività i cui monaci accolgono con calore e simpatia i turisti. Fermatevi qui a chiacchierare, a filosofeggiare e a disquisire del senso della vita. Sono stata fortunata perché ho incontrato un gruppo di giovani monaci alcuni dei quali parlavano un ottimo inglese. Abbiamo discusso a lungo di Buddha, del mondo illusorio, dell’importanza di avere una mente allenata per saper resistere alle tentazioni del mondo, della speranza, del ruolo che pensieri e desideri giocano nella nostra vita, di felicità interiore e compassione, di come il mondo cambia quando cambiamo noi. Una bella discussione interattiva difficile da riassumere qui in poche righe.

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“Perché le persone si allontanano?” mi domanda un monaco mentre mi alzo. Tentenno, riprende lui la parola: “Perché abbiamo la presunzione di conoscere gli altri, mentre quello che conosciamo è solo il loro ricordo, l’idea che noi abbiamo di loro. Se ci incontrassimo di nuovo domani, tu saresti un’altra persona. Le persone cambiano, evolvono. Sono il continuo risultato di pensieri ed esperienze. Per stare insieme a lungo, bisogna avere l’umiltà di ammettere di non conoscersi e continuare a prestare attenzione alla persona che il nostro compagno di vita diventa giorno dopo giorno. Siete marito e moglie, vero?” Annuisco senza parlare. Riprendiamo gli zaini, salutiamo e ci avviamo alla scalinata. E’ ormai notte e la discesa è piuttosto rocambolesca. Ricordatevi la torcia!

Foto di Emiliano Allocco

I campi di sterminio di Choeung Ek

A una decina di chilometri da Phnom Penh, sorge il Campo di sterminio di Choeung Ek, un luogo tetro e oscuro dove tra il 1975 e il 1979 oltre 17 mila persone (uomini, donne, bambini) furono barbaramente assassinati dal regime dei Khmer Rossi. Choeung Ek era in precedenza un cimitero cinese, piuttosto isolato dai centri abitati. Fu solo uno dei 300 campi di sterminio attivi in Cambogia in quel periodo. In appena 3 anni 8 mesi e 20 giorni, i Khmer rossi si resero responsabili della morte di 3 milioni di persone, il 25% della popolazione totale.
I prigionieri giungevano a Choeung Ek dal carcere di massima sicurezza di Tuol Sleng, noto come S-21, dove dopo lunghe e terribili torture venivano costretti a una confessione forzata di crimini inesistenti compiuti contro Angkar, l’organizzazione in nome della quale i Khmer rossi governavano. Qua venivano costretti a scavare ampie fosse per poi essere giustiziati a bastonate per mezzo di asce, zappe, canne di bambù, martelli. I proiettili erano costosi e dovevano essere risparmiati. Sui corpi esanimi si spargeva del DDT per uccidere chi, eventualmente, era ancora vivo. Il DDT serviva anche per coprire il forte odore di decomposizione dei cadaveri. Durante le esecuzioni, compiute di notte, veniva suonata musica per celare le grida dei prigionieri.
Choeung Ek si contano 129 fosse comuni su un terreno di 2,4 ettari. I resti di 8.985 persone furono riesumati nel 1980; 43 fosse non sono ancora state aperte. Tra i morti si contano anche 9 stranieri: 1 australiano, 2 francesi e 6 americani.
Aggiunge orrore a questa tragedia straziante la scoperta che neanche i neonati erano risparmiati. Venivano lanciati violentemente contro un grande albero presente nel campo, uccisi davanti agli occhi delle madri impotenti. Perché? Uno dei motti terribili dei Khmer rossi era: “Meglio uccidere un innocente per errore che risparmiare un nemico per errore”. Quando un membro di una famiglia era condannato a morte, di solito si sterminava l’intero nucleo familiare per “estirpare le erbacce” ed evitare che i superstiti potessero vendicarsi in futuro.

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I teschi riesumati conservati nello stupa commemorativo

Nel 1988 al centro del campo fu eretto uno stupa commemorativo della tragedia in memoria delle vittime. Qui in teche in vetro sono conservati oltre 8.000 teschi, ordinati su più piani e divisi per età e sesso. Una visione raccapricciante, uno strazio disumano.
“Sad?” mi chiede il nostro conducente di tuk tuk mentre mio marito ed io facciamo ritorno a Phnom Penh. Annuisco. In un inglese stentato mi racconta che entrambi i suoi genitori, di professione insegnanti, e i suoi fratelli sono morti in questo campo. Lui era appena un neonato quando la Kampuchea Democratica governava il paese. Venne nascosto e miracolosamente salvato dai parenti. Fu costretto a un esilio lungo 10 anni in un campo profughi in Thailandia. Mi parla dell’incontro con un sacerdote e della sua conversione alla fede cristiana, come viatico per sopportare il dolore e superare la rabbia. Mi dice di avere 2 figli maschi di 9 e 10 anni che ha iscritto, con sacrificio, a una scuola internazionale perché imparino l’inglese e possano un giorno viaggiare. Mi confessa che il suo sogno era quello di studiare come i suoi genitori. Spera lo realizzino i suoi figli. Probabilmente questo è il solo riscatto possibile e l’unica rivincita contro un regime che perseguitò con crudeltà vigliacca gli intellettuali e gli insegnanti. Forse un barlume di speranza si intravede.

Uscire di casa a piedi e ritrovarsi a Phnom Penh: l’importanza di essere pellegrini, il dovere di essere “nessuno”

Caro blog, oggi compi un anno! E ti festeggio scrivendo queste righe seduta su una terrazza che si affaccia sul caos di Phnom Penh, Un anno fa ora ero in partenza per Hanoi. Mi sei mancato e ti ho trascurato molto negli ultimi tempi.
Ti ho perso di vista qualche mese fa, direi quando ho smarrito un pezzo di me per strada. Sono stata a giro, decisamente meno di quanto avrei voluto. Ho raccolto appunti di viaggi, fotografie e abbozzi di storie di cui probabilmente non scriverò mai. Ho letto meno di quanto avrei voluto. Ma tu caro blog, sei stato un pretesto prezioso di felicità e uno strumento per far caso alla bellezza che ho incontrato lungo la via nell’ultimo anno. Ma oggi ricomincio da qua.
Lunedì sono uscita di casa a piedi, lo zaino sulle spalle e mio marito per mano. Dopo un viaggio in treno e uno in bus, dopo una coincidenza aerea e una rigenerante corsa in tuk tuk mi sono ritrovata nel centro di Phnom Penh. Un viaggio finalmente, in Asia ancora una volta come piace a me. Sono uscita di casa a piedi e mi sono ritrovata dall’altra parte del mondo. Un tentativo modesto, certo, di viaggiare lentamente, per provare a trasformare una vacanza in un pellegrinaggio. Non turisti, ma pellegrini rispettosi dell’ambiente, dei luoghi, della sacralità del tempo, di costumi e tradizioni diverse.
Un pellegrinaggio per ritrovare se stessi dopo un lungo anno passato a correre, a essere, a lavorare. Oggi finalmente sono nessuno. E non potrei esserne più felice.
Ribadisco e rivendico con decisione l’importanza e la necessità di essere nessuno come esercizio di umiltà, consapevolezza e crescita individuale. Viaggiare mi piace anche per questa ragione: mentre si esplora il mondo là fuori e si perdono i propri punti di riferimento, si ritrova se stessi. E’ un dovere ricordarci chi siamo al di fuori dei ruoli che rivestiamo nella quotidianità. E’ bellezza ricordarsi di essere altro da quello che facciamo. E’ obbligatorio disconnettersi, non leggere le mail, staccare la spina, abbandonare la modernità e i suoi modernismi. Oggi non sono nessuno e mai come nell’ultimo periodo mi sento io. Vado a perdermi tra le vie della città che fondò una donna, Penh. Chissà quante storie avrò da raccontare questa sera.
Buon primo compleanno A giro ergo sum, buon pellegrinaggio a me!

C’è una maschera per la famiglia, una per la societàuna per il lavoro. E quando stai solo resti nessuno. (Luigi Pirandello)

La prima corsa in tuk tuk alla scoperta di Phnom Penh