A una decina di chilometri da Phnom Penh, sorge il Campo di sterminio di Choeung Ek, un luogo tetro e oscuro dove tra il 1975 e il 1979 oltre 17 mila persone (uomini, donne, bambini) furono barbaramente assassinati dal regime dei Khmer Rossi. Choeung Ek era in precedenza un cimitero cinese, piuttosto isolato dai centri abitati. Fu solo uno dei 300 campi di sterminio attivi in Cambogia in quel periodo. In appena 3 anni 8 mesi e 20 giorni, i Khmer rossi si resero responsabili della morte di 3 milioni di persone, il 25% della popolazione totale.
I prigionieri giungevano a Choeung Ek dal carcere di massima sicurezza di Tuol Sleng, noto come S-21, dove dopo lunghe e terribili torture venivano costretti a una confessione forzata di crimini inesistenti compiuti contro Angkar, l’organizzazione in nome della quale i Khmer rossi governavano. Qua venivano costretti a scavare ampie fosse per poi essere giustiziati a bastonate per mezzo di asce, zappe, canne di bambù, martelli. I proiettili erano costosi e dovevano essere risparmiati. Sui corpi esanimi si spargeva del DDT per uccidere chi, eventualmente, era ancora vivo. Il DDT serviva anche per coprire il forte odore di decomposizione dei cadaveri. Durante le esecuzioni, compiute di notte, veniva suonata musica per celare le grida dei prigionieri.
A Choeung Ek si contano 129 fosse comuni su un terreno di 2,4 ettari. I resti di 8.985 persone furono riesumati nel 1980; 43 fosse non sono ancora state aperte. Tra i morti si contano anche 9 stranieri: 1 australiano, 2 francesi e 6 americani.
Aggiunge orrore a questa tragedia straziante la scoperta che neanche i neonati erano risparmiati. Venivano lanciati violentemente contro un grande albero presente nel campo, uccisi davanti agli occhi delle madri impotenti. Perché? Uno dei motti terribili dei Khmer rossi era: “Meglio uccidere un innocente per errore che risparmiare un nemico per errore”. Quando un membro di una famiglia era condannato a morte, di solito si sterminava l’intero nucleo familiare per “estirpare le erbacce” ed evitare che i superstiti potessero vendicarsi in futuro.

Nel 1988 al centro del campo fu eretto uno stupa commemorativo della tragedia in memoria delle vittime. Qui in teche in vetro sono conservati oltre 8.000 teschi, ordinati su più piani e divisi per età e sesso. Una visione raccapricciante, uno strazio disumano.
“Sad?” mi chiede il nostro conducente di tuk tuk mentre mio marito ed io facciamo ritorno a Phnom Penh. Annuisco. In un inglese stentato mi racconta che entrambi i suoi genitori, di professione insegnanti, e i suoi fratelli sono morti in questo campo. Lui era appena un neonato quando la Kampuchea Democratica governava il paese. Venne nascosto e miracolosamente salvato dai parenti. Fu costretto a un esilio lungo 10 anni in un campo profughi in Thailandia. Mi parla dell’incontro con un sacerdote e della sua conversione alla fede cristiana, come viatico per sopportare il dolore e superare la rabbia. Mi dice di avere 2 figli maschi di 9 e 10 anni che ha iscritto, con sacrificio, a una scuola internazionale perché imparino l’inglese e possano un giorno viaggiare. Mi confessa che il suo sogno era quello di studiare come i suoi genitori. Spera lo realizzino i suoi figli. Probabilmente questo è il solo riscatto possibile e l’unica rivincita contro un regime che perseguitò con crudeltà vigliacca gli intellettuali e gli insegnanti. Forse un barlume di speranza si intravede.
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